CHE IL PADRONE CI TROVI VIGILANTI!

11 AGOSTO 2019  –  XIX Domenica del T.O.  (C)

CHE IL PADRONE CI TROVI VIGILANTI!                                            

       a cura del gruppo biblico ebraico-cristiano

השרשים  הקדושים

francescogaleone@libero.it

Prima lettura:  Come punisti gli avversari, così ci rendesti gloriosi, chiamandoci a te (Sap 18, 3). Seconda lettura:  Aspettava la città, il cui architetto e costruttore è Dio (Eb 11, 1).  Terza lettura:  Anche voi tenetevi pronti! (Lc 12, 32)

  1. La domenica “della vigilanza”. Gesù anche oggi continua a istruire i suoi discepoli. Un insegnamento fondamentale ci è stato consegnato domenica scorsa con la parabola del “ricco stolto”. Oggi il Vangelo ci ricorda che la scelta per Dio avviene qui e ora: Dov’è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore. Vigilanza, quindi: l’ora della fine della nostra vita, il momento del ritorno di Gesù, è tutto incerto e certo insieme. Tutto può accadere prima di quanto immaginiamo, ma anche più tardi di quanto pensiamo. Vigilanza, ma non ossessione; occupati, ma non preoccupati; attivi, ma con serenità. Vivere è attendere, cioè tendere-verso qualcosa, meglio. Qualcuno. Il credente è uno che progetta il futuro costruendo il presente, perché l’unica maniera per essere fedeli all’eternità è di essere nell’attualità. Siamo nel tempo e sulla terra per guadagnarci l’eterno e il cielo. L’alternativa non è o il cielo o la terra, ma e la terra e il cielo. Il lucido pazzo di Roecken ha proclamato solo una mezza verità: “Restate fedeli alla terra”! Occorre essere anche fedeli al cielo, perché l’uomo è anche cielo, immagine di Dio, apertura al Trascendente. La luce del cielo può illuminare anche questa nostra terra; la nostra vita può diventare meno tenebrosa; le lampade servono per attendere il Signore, certo, ma anche per non perderci nel gomitolo delle nostre complicazioni.
  2. A fatti e personaggi significativi noi dedichiamo vie, monumenti, giornate… Perché guardiamo al passato? Per non dimenticarlo. Il passato va ricordato per capire come agire oggi. Anche gli ebrei, nei momenti difficili, hanno ritrovato fiducia guardando al loro passato. Verificando che Dio li aveva sempre protetti, guardavano con fiducia anche al futuro. Israele è un popolo che ama ricordare, soprattutto i prodigi dell’Esodo, e ne fa una commovente presentazione. Dio sul Sinai aveva presentato se stesso non come nei catechismi (Dio è l’essere perfettissimo, Creatore e Signore del cielo e della terra), ma: Io sono il Signore tuo Dio che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto (Es 20,2). Ha fatto, cioè, una teologia storica, non metafisica o teogonia. Ad essa seguono le Dieci Parole, ossia una serie di insegnamenti positivi e negativi. In altri termini, Dio ordina all’uomo di fare, e per questo l’ebraismo si definisce come ortoprassia, prima che come ortodossia. Israel è chiamato all’ascolto di una Voce che comanda: Ascolta, Israel … Shema‘, Israel (Dt 6,4). Ascoltare per fare: l’ebraismo pone l’accento non sulla dottrina, sulla teologia, ma sull’etica e sul comportamento. Chiunque prenda la Bibbia tra le mani, vi scopre non speculazioni metafisiche su Dio, ma racconti di avvenimenti storici. Alla rivelazione biblica non interessa ciò che è (was ist) Dio, ma ciò che accade (was geschah), quando Dio agisce. Anche noi, cristiani sull’esempio di Gesù ebreo, siamo invitati a ricordare, a fare memoria, non a ripetere formule meccaniche mnemoniche.
  3. In questo tempo difficile, da molti la vita viene interpretata come un cammino, un pellegrinaggio, un esodo. Non alla maniera spiritualistica e devozionale, con cui parliamo di questa “valle di lacrime”, dopo la quale avremo la gioia del paradiso! Come accennò con grande intuito Paolo VI durante il concilio, la chiesa è insieme nave e roccia. Per i nostri padri, la chiesa era solo una roccia! Non dava idea di viaggio ma di stabilità. E se viaggio era, si trattava comunque di un viaggio sicuro. Non praevalebunt! Oggi siamo tutti testimoni che il grande blocco si è disciolto; le sicurezze non vengono più offerte attraverso i metodi dell’addottrinamento autoritario e dell’obbedienza gregaria. E allora qual è questo principio di stabilità nel divenire? E’ la Parola di Dio. Appena si accende il contatto tra la coscienza del credente e la Parola di Dio, si scuotono tutti i tralicci dell’istituzione. Si scopre che l’istituzione aveva sviluppato un agglomerato di false sicurezze; si era scambiata la chiesa come l’ospizio degli uomini in cerca di sicurezza. Non degli uomini che camminano, guardando in alto e in avanti, verso una Città nuova, no, ma degli uomini attaccati al cumulo delle tradizioni. Ebbene, la Parola di Dio fa crollare tutte queste sovrastrutture della storia individuale e collettiva, e ci fa entrare nella mobilità assoluta, ci mette in regime di esodo verso la Terra promessa, in stato di conversione verso l’Assoluto.
  4. E’ l’insegnamento della prima lettura (Sap 18,3): il popolo ebraico, durante il suo viaggio, doveva distribuire le soste e il cammino a seconda delle indicazioni della colonna di fuoco durante la notte, e di fumo durante il giorno. Nelle lunghe soste, l’istinto sedentario prendeva il sopravvento e l’accampamento si trasformava in una città. Ma, all’improvviso, la nube si alzava e gli ebrei dovevano riprendere il loro pellegrinaggio. E’ immaginabile che molti non volevano muoversi, rimpiangevano l’immobilità, anzi, rimpiangevano l’Egitto e le sue cipolle. Anche oggi, viviamo in un momento in cui si è alzata la nube: c’è chi non vuole muoversi, e scambia l’immobilità per fede. Può darsi che qualcuno prenda un passo troppo veloce, si stacchi dal grosso del popolo di Dio. Dobbiamo uscire insieme dal deserto! Non dobbiamo fare pattuglie di avanguardia che si staccano dal gruppo. Ma anche l’immobilità è un segno di mancanza di amore e di solidarietà. Noi non viaggiamo per noi, ma come popolo di Dio. Nessun immobilismo o rimpianto, nessun nomadismo o randagismo, ma tutti pellegrini come il padre Abramo, come il popolo d’Israele. Noi dobbiamo oggi, con carità e fermezza, combattere l’immobilismo, perché esso è contrario alla fede, anche se si ammanta di tutti gli addobbi sacri. Ma dobbiamo anche vincere l’individualismo della fede, che non tiene conto della dimensione della comunità. E tutto questo richiede pazienza, moderazione, soste, dovute non a tatticismo ma a carità.
  5. Oggi, da questo travagliato trapasso culturale, sta nascendo un uomo diverso; la gestazione non è tranquilla perché abbiamo paura del “diverso”, cioè degli uomini esclusi, delle generazioni emarginate, delle masse sfruttate, dei popoli alienati, delle minoranze non riconosciute. Il Dio del Vangelo fa paura, e le istituzioni – anche quelle ecclesiastiche – a volte spengono il fuoco dello Spirito. Ma Dio si fa beffa di noi, delle nostre istituzioni, delle astuzie della ragione; sorride quando presumiamo di sistematizzare il provvisorio. In questo, Gesù è fedele allo spirito della sua gente: il popolo più schiavo sogna di dominare gli altri sotto il Messia; il più disprezzato si sente promesso alla gloria: il più castigato da Dio si crede il più amato; il più peccatore è certo di essere il solo predestinato alla salvezza. In Gesù, però, la rivincita della coscienza ebraica diventa revisione dei valori, passaggio dalla esteriorità alla interiorità. Il mondo di Dio è veramente un altro: un mondo dove il basso deve essere creduto alto, l’ultimo è il primo, la vecchia verità è errore, le astuzie della ragione umana si rivelano in tutta la loro impotenza salvifica. I suoi valori sono totalmente diversi dai nostri, stupefacenti i suoi gusti, laceranti le sue gioie, beate le sue sofferenze; vi si accede solo attraverso una rinascita. Se l’uomo vi penetra, ha tuttavia la sensazione di non essere uno straniero; tutte le sue abitudini sono contrariate, ma la sua anima si rasserena come se vi respirasse aria di casa. Questo perché l’uomo è creato ad immagine di Dio. La Rivelazione di Dio è sempre una rivelazione dell’uomo; imparando a conoscere Dio, l’uomo impara a riconoscere se stesso.
  6. A differenza dei tempi passati, oggi negare Dio non è più strano né isolato; oggi l’ateismo viene teorizzato lucidamente come esigenza del progresso scientifico. O Dio o l’uomo! La fede oggi incontra quasi dappertutto delle resistenze, e sarebbe interessante interrogarsi quanto la teologia tradizionale e la male-educazione religiosa precedente abbiano contribuito ad allontanare la fede dalla società, Dio dall’uomo. “Au­schwitz è stato opera di cristiani. E quando ebbero finito, il loro Dio era diventato un’assurdità” (Th. Adorno). Nel 1300, G. Cavalcanti poteva suscitare scalpore che si accanisse a cercare “se pruovar si potesse che Dio non fusse”. Per il suo tentativo non c’era spazio nella Societas Christiana Medioevalis perché trono e altare, codice giustinianeo e diritto canonico convergevano insieme nel soste­nere le fondamenta della società: ogni deviazione dalla ortodossia rappresentava implicitamente un attacco alla chiesa, fondamento stabile e perpetuo della società. Attualmente invece l’ateo è cittadino con pieni diritti, è fiero di essere incredulo, nessuno gli domanda le ragioni della sua incredulità, anzi, egli stesso è dispensato dal cercarle. La situazione è ribaltata: non è l’ateo che deve giustificare il proprio rifiuto; è il credente che appare sempre più al banco degli accusati: colpevole di credere! Il credente stesso si affanna per motivare quotidianamente la sua fede. Egli soffre per una duplice tensione: essere fedele a Dio e fedele all’uomo; vivere nel dialettico solco di esistenza e fede, di promozione umana e proposta evangelica. Tale discrasia sovente lo conduce ad un’esistenza schizoi­de, perché lo impegna su due fronti antitetici: la Città dell’Uomo e la Città di Dio. Essendo per lo più assorbito dai problemi dell’esistenza, l’uomo allontana o rimuove le istanze religiose, che però riemergono come un fiore da sotto l’asfalto, in particolari momenti della vita, e tutto ciò non fa che acuire l’angustiante dicotomia. Davanti alle attuali ideologie sovraniste la fede sembra abbia poco da dire; si preoccupa di erigere barriere, una linea Maginot teologica, per difendere il depositum fidei, sempre più indifeso. Eppure l’uomo, oggi come sempre, interroga la fede: quali risposte offre ai suoi interiori conflitti? Le tre domande di E. Kant – “Cosa posso sapere, cosa posso sperare, cosa devo fare?” – urgono per avere risposta. Resta la triade dolorosa del male fisico, della sofferenza morale, della morte ineludibile, che costituisce la passività dell’esistenza, con la quale occorre fare sconso­latamente i conti, anche nelle migliori strutture sociali progettate e realizzate. Buone Vacanze e Buona vita!

Mattia Branco

Ho diretto, ho collaborato con periodici locali e riviste professionali. Ho condotto per nove anni uno spazio televisivo nel programma "Anja Show".

Potrebbero interessarti anche...

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *