Domenica 7 giugno 2015 Corpus Domini (B)

 Gesù che parla alla gente

Domenica 7 giugno 2015

Corpus Domini (B)

Questo è il mio corpo! Questo è il mio sangue!

“Commento di don Franco Galeone”

(francescogaleone@libero.it)

 

Questo è il mio corpo, cioè: questo sono io!

Il racconto di Marco, bene analizzato dagli studiosi, rivela in filigrana i gesti e le formule che, nel nome di Gesù, la comunità delle origini usava nelle celebrazioni eucaristiche; quei riti, ripetuti attraverso i secoli, sono giunti a noi, vivi ed efficaci, nelle chiese di tutto il mondo. Per comprendere meglio, occorre partire dal rituale della Pasqua ebraica, regolato dal “seder”, cioè da un “ordine” che comprende almeno 14 riti diversi. Davanti a Gesù, che celebra il seder pasquale, si trovano i pani azzimi e la terza coppa di vino. Gesù pronuncia la tradizionale benedizione e spiegazione, ma poi, ecco a sorpresa, quelle misteriose parole: “Questo è il mio corpo”, che nella mentalità orientale significano “Questo sono io!”. Poi Gesù prende la terza coppa di vino, forse inghirlandata di fiori, espressione solenne della gioia pasquale dell’ebreo, e dice ancora quelle misteriose parole: “Questo è il mio sangue”, che nel linguaggio orientale significa “Questa è la mia vita”. Con questi due gesti, Gesù chiama i suoi ad una profonda unione con lui, alla sua vita, al suo sangue, alle sue vicende di morte e di gloria. I Padri del deserto ci hanno lasciato una ricca antologia di aneddoti per insegnarci quanto intenso deve essere il nostro desiderio di Dio. In uno di questi si ricorda il gesto stravagante compiuto da uno di loro nei confronti di un discepolo che gli chiedeva quanto in­tensa dovesse essere l’unio­ne con Dio. Il maestro l’ave­va fatto scendere nel Nilo e gli aveva schiacciato la testa sott’acqua. Quando, ormai disperato, il discepolo era riuscito a riemergere, si sentì dire queste parole: “Che cosa hai desiderato di più in questi istanti terribili? Naturalmente l’aria. Ebbe­ne, devi desiderare la comu­nione con Dio con la stessa intensità con cui hai desiderato l’aria che respiri”.

 

Questo è il mio sangue, cioè: questa è la mia vita

L’eucaristia  è una tavola di amici, un banchetto di festa. Per un buon pranzo, occorre una persona che inviti, degli invitati che accettino, del cibo da consumare. Qui, la persona che invita è Gesù, che offre tutto se stesso attraverso il gesto più umano: l’invito a una tavola. A tavola avviene un duplice scambio: pane e amicizia; scambio con chi invita, ma anche tra gli invitati. Che tavola triste quella in cui ogni invitato parla solo con il padrone o gli invitati parlano solo tra loro senza ringraziare il padrone! Non sarebbe più un pasto tra amici ma una refezione tra collegiali. Qualche volta, nelle nostre chiese, sembra di partecipare non ad un unico banchetto, dove batte un cuore e un’anima sola, ma di trovarsi in un ristorante con tanti tavolini, dove ognuno si comunica con Dio. Ognuno per sé e Dio per tutti! A tavola, occorre stare insieme e parlarsi, raccontarsi, progettare.
Direi che la tavola è fatta non solo di presenze, ma anche di parole, di confidenze, di narrazioni. A tavola, si dialoga. A tavola, occorre non solo darsi, ma anche dirsi! Oggi, ci viene ricordato che la suprema manifestazione del “sacro” avviene attraverso segni umili e semplici, il pane e il vino, frutto della terra e del lavoro umano. I segni scelti per rappresentare il sacro sono quanto di più materiale, umano, laico, si possa pensare: non difficili pensieri, nobili sentimenti, splendori artistici … ma, le umili cose di tutti i giorni. Il Signore non ha scelto il riso o la birra, ma il pane e il vino, materiale laico per eccellenza. Il momento più alto del trionfo del sacro rappresenta nello stesso tempo la consacrazione e celebrazione dell’umano. Davvero Dio prende sul serio le nostre piccole cose.

 

Senza la fede, tutto diventa un museo di simboli vuoti!

Che senso può avere questa processione oggi? Anche noi oggi dovremmo ricordare tante cose del nostro viaggio, non solo gli scorpioni e i serpenti (Dt  8,15), ma anche l’acqua sgorgata un giorno dalla roccia, all’improvviso, e la manna discesa dal cielo quando credevamo di morire di fame. Quante volte eravamo disperati e tristi, ed ecco dal cielo un aiuto, uno squarcio, a ricordarci che non viviamo la storia da soli, chiusi nel tragico cerchio dell’immanenza. Quante piacevoli sorprese! Certo, quelle sorprese sono subito passate, il vecchio dura ancora, mentre il nuovo viene come un fiore che sboccia e la sera è già secco. Ma dentro la roccia arida scorre la linfa. Questo lo sappiamo perché Dio è presente nella vita. Certo, evidente è la vecchiaia e non la novità, la ferocia e non il perdono, l’egoismo e non la solidarietà, la morte e non la risurrezione. Ma chi vuole solo l’evidenza, deve rassegnarsi ad essere il custode del passato. Avere fede significa essere privo di evidenze razionali, di prove scientifiche. Sappiamo che molti increduli sono in realtà credenti, e molti credenti sono invece increduli. Ci sono stati uomini senza religione, che però hanno guidato il popolo verso la liberazione; e ci sono stati uomini con il labaro e lo scudo crociato che hanno diviso il popolo di Dio. Avere fede significa credere in Dio, che ha stretto un patto con l’uomo in cammino nel deserto. Questa è la base di tutte le nostre speranze. Senza questo punto di appoggio, tutto diventa come un museo di simboli vuoti.

Mattia Branco

Ho diretto, ho collaborato con periodici locali e riviste professionali. Ho condotto per nove anni uno spazio televisivo nel programma "Anja Show".

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