Gesù risorto si manifesta nei pastori della chiesa

Domenica 26 aprile 2015Gesù che parla alla gente

IV domenica di Pasqua (B)

Gesù risorto si manifesta nei pastori della chiesa

“Commento di don Franco Galeone”

(francescogaleone@libero.it)

 

Il Signore è il mio pastore!

Siamo alla domenica del Buon Pastore, nella quale siamo tutti impegnati a riflettere e a pregare per le vocazioni sacerdotali e religiose. Giovanni fa ricorso a tre simboli importanti: quello del pastore, quello della porta, quello delle pecore. Gesù è il buon pastore; en passant, ricordiamo che nell’originale greco abbiamo “bel…kalòs” pastore: nello stile orientale bellezza e bontà formano un tutt’uno. Uno dei salmi più belli così descrive il rapporto tra Dio e il fedele: “Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla” (Sal 23). In seguito, il titolo di pastore viene dato anche a quelli che rappresentano Dio in terra: i re, i sacerdoti, i capi. Ma qui il simbolo evoca, oltre le immagini della sicurezza, anche quelle dello sfruttamento; appare così la figura del mercenario. Gesù, nel vangelo di Giovanni, riprende l’immagine del pastore, con una novità importante. Egli dice: “Io conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me”. Già sappiamo che nella Bibbia il verbo “conoscere” implica mille sfumature, che coinvolgono sensi e ragione, sessualità e affetto, volontà e intelligenza. In una società pastorale, il rapporto tra pastore e gregge non è solo di tipo economico; si sviluppa invece un rapporto quasi personale; giornate passate insieme, in luoghi solitari, il pastore finisce per conoscere tutto di ogni pecora, e la pecora riconosce tra tante la voce del “suo” pastore.

 

Criteri per riconoscere il buon pastore

Questo brano di vangelo appartiene al genere di auto-rivelazione. Quando Gesù dice di essere il buon pastore, egli presenta la sua identità, molto diversa da quella del mercenario, uno che non si compromette, uno che è e resta un estraneo. Va anche sottolineato che il punto di raccolta per le pecore non è un luogo particolare, ma l’amore di Dio rivelato dal Figlio. Gesù ha dato vita ad una chiesa intesa non in senso stretto (chiesa cattolica, ortodossa, sinagoga, moschea, fiume sacro) ma in senso lato, cioè a un raduno ecumenico universale. E la chiesa cattolica deve perciò presentarsi non come una potenza ma come una forza di attrazione, grazie all’amore per la vita e alla passione per l’uomo. Gesù indica pure i 3 criteri per riconoscere il buon pastore:

 

▪ egli dà la vita per le pecore (il Servo sofferente),

â–ª egli conosce le sue pecore (in senso biblico),

▪ egli cura il gregge (modello per gli attuali pastori).  

 

Le pecore conoscono la voce del pastore

Cristo vuole che noi lo conosciamo come egli si conosce, come il Padre lo conosce. Tale esigenza ci spaventa; anche nella migliori famiglie è raro conoscersi veramente; pensiamo che sia pericoloso. Chi oserebbe dire: “Mia moglie conosce me come io conosco mia moglie”? I genitori vogliono conoscere tutto dei figli, ed è anche giusto, e se anche i figli conoscessero tutto del padre e della madre? Quanti schermi, quanti silenzi, quante parole non si dicono più perché è meglio tacere, perché non saremmo capiti. Bisogna veramente amare per desiderare di mostrarsi come siamo, con le nostre odiose colpe, i nostri vergognosi pensieri, e con quello strano resto di innocenza che ancora è presente in ognuno di noi. Sappiamo che il Signore ci conosce bene, ma di questo abbiamo più timore che gioia; dal catechismo sappiamo che Dio vede tutto (il famoso occhio nel triangolo!), e pensiamo quasi di essere spiati e condannati, invece di pensare che ci segue per aiutarci. E’ questo l’unico lavoro degno di un padre e di un Dio; è questo il primo articolo della nostra fede: “Credo in Dio, padre onnipotente”, cioè sempre pronto a perdonare, a dare fiducia, ad accogliere ogni figlio prodigo e dissoluto!

C’è però un’altra conoscenza, quella intraecclesiale, che deve realizzarsi tra i pastori e i fedeli, facendo cadere quelle distanze che impediscono il dialogo, la trasparenza, l’amicizia. Dobbiamo evitare questo doppio errore: che il pastore sospiri un gregge più docile, parrocchiani più sottomessi, fedeli più obbedienti; l’altro, che i parrocchiani applichino il vangelo al proprio parroco: se si interessasse un po’ di più… se fosse meno attaccato ai soldi… se non si lasciasse condizionare da… Siamo tutti purtroppo abili a confessare i peccati degli altri! Un gioco inutile, oltre che immorale. Ma poi la conoscenza del pastore deve allargarsi oltre i confini della propria parrocchia o diocesi; è l’impegno missionario, sull’esempio di Gesù, che, pur mandato anzitutto alle “pecore perdute della casa di Israele”, ha avuto la passione per la universalità. È necessario uscire, tutti, dal guscio della propria chiesa, ed entrare nel rumore delle città e nella miseria della vita. Notare ancora come il pastore va alla ricerca della pecora: fuori di metafora, Dio cerca il suo popolo, non viceversa; Dio prende l’iniziativa, si rivela; la Bibbia tutta descrive quanto Dio fa per l’uomo e non viceversa. Non sfugga, infine, il fatto che Dio non ci ama come massa ma come persone, come Gesù racconta nell’altra parabola: “Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una …” (Luca15,14). Dio è come un padre, meglio, come una madre di molti figli: tutti i figli messi insieme non riescono a colmare il vuoto di un figlio perduto.

 

Mattia Branco

Ho diretto, ho collaborato con periodici locali e riviste professionali. Ho condotto per nove anni uno spazio televisivo nel programma "Anja Show".

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