Il 150° anniversario dell’Unità d’Italia.

                L’ANALFABETISMO DEL MERIDIONE ( CHE NON E’ INCULTURA )

                            DOPO UN DECENNIO  DI UNITA’ D’ITALIA

                 DIMINUI’ SOLTANTO DEL 2,9% : FINALMENTE RICONOSCIUTA

                             LA BATTAGLIA DI CIVILTA’ INIZIATA DAI BORBONE.

                                                     di Francesco Iesu*

 

Sul Corriere della Sera, i famosi giornalisti –scrittori, Rizzo e Stella, nel riportare i dati del divario Nord-Sud sull’analfabetismo del censimento del 1861, hanno così commentato:” Alla faccia dei miti borbonici, il doppio che in Piemonte”, facendo credere che la colpa sia stata dei Governi borbonici.

Nell’immediato, ho già replicato che tale ingeneroso giudizio non teneva presente che  il Piemonte come  la Lombardia erano stati per secoli governati da due sole dinastie, le quali avevano sempre avuto un ordinamento scolastico all’avanguardia, mentre il Meridione era stato governato da una miriade di Stati stranieri, i quali  non si erano mai curati dell’istruzione del popolo.

Oggi, a mente più fredda e razionale, ritengo opportuno  aggiungere quanto ha riportato uno studioso casertano, Giuseppe d’Anna,  in un suo opuscolo del 1923, perché dà una spiegazione eloquente sulle cause del divario dei dati statistici, frettolosamente attribuito alla colpa  dei Borbone dai due giornalisti.

Il d’Anna, futuro preside del prestigioso Liceo –Ginnasio” Giannone” di Caserta, cosi scriveva:

“I governi borbonici non solo non si disinteressarono affatto dell’istruzione delle popolazioni urbane e campagnole, nella capitale e nelle province vicine e lontane, ma la favorivano non meno di quanto avevano fatto i governi “illuministici” e rivoluzionari di Giuseppe Bonaparte e Gioacchino Murat.

Nell’intero periodo storico, che precede e segue il decennio francese, l’istruzione è sempre ripartita nei tre gradi caratteristici e, per così dire, naturalmente dati ed ingeniti, nei quali è distribuita anche oggi e forse sarà distribuita altresì nel lontano avvenire : i gradi primario, medio e superiore. Questo grado superiore viene, talvolta, denominato sublime; ma  la diversità dell’aggettivo non altera la sostanza della cosa ( anzi la qualifica in melius).

Nella scuola primaria l’insegnamento si riduceva alle materie essenziali : la grammatica per imparare a leggere e  scrivere, l’aritmetica per far di conto, la storia sacra per essere cristiani con una certa conoscenza di fatto. E’ quanto bastava, sulla carta, per dare un’istruzione ed un’educazione sommarie ai fanciulli, alle plebi urbani e rurali. E abbiamo detto sulla carta, allo scopo di rispondere implicitamente ad un’osservazione che sorge da sé. L’osservazione è questa: se un’ istruzione sommaria veniva ufficialmente impartita alle popolazioni, come mai si spiega poi il fenomeno dello spaventevole analfabetismo, che l’unità d’Italia col governo italiano trovò diffuso in tutto il Mezzogiorno, dove in talune plaghe, per es. della Basilicata e della Calabria, gli analfabeti sfioravano il cento per cento?

 Per rispondere, è necessario entrare in un ordine di fatti tutto diverso; nell’ordine, cioè delle vere condizioni sociali e secolari di quelle popolazioni. Il fenomeno del quasi completo analfabetismo, nonostante l’istituzione delle scuole, è spiegabile in vari modi, presi tutti insieme. I maestri, preti, parroci, religiosi o laici, badavano soltanto allo stipendio, e, profittando del controllo molto lontano o esso stesso non curante e timido, non facevano scuola. La scuola non era richiesta da nessuno, salvo che da qualche aspirante maestro, protetto da qualche potente, che riusciva a fargliela ottenere; vale a dire, era demandata non dalle popolazioni ma da borghesucci locali, religiosi secolari o regolari, che miravano ad accaparrarsi, col pretesto della scuola, quel tanto di ducati al mese. Le condizioni impressionanti dell’analfabetismo provano e riprovano che le moltitudini non frequentavano le scuole. Le plebi urbane e rurali ne erano assenti. Le plebi non sentivano il bisogno dell’istruzione. Ed il governo borbonico, che voleva impartirla per i propri fini, ossia per tenere le popolazioni legate al trono, si trovò a lottare presso a poco con la stessa difficoltà contro cui ha cozzato poi il governo italiano. Il governo borbonico intendeva  illuminare le plebi di quel poco che bastasse a farle suddite fedeli del trono e dell’altare; e quelle erano incapaci e renitenti a farsi illuminare neppure la strada della parrocchia e del camposanto. Non è giusto imputare del tutto al governo o al mal governo dei Borbone  le conseguenze dei mali atavici delle popolazioni meridionali, che hanno le loro origini nei secoli e nei millenni, giacché  non esiste né buona volontà, né  sapienza di governo, le quali valgono a rigenerare delle sue tradizionali calamità un popolo, che non voglia e sappia rigenerarsi da sé, con le sue proprie energie latenti.

Il governo italiano ha combattuto e combatte ancora l’aspra battaglia per costringere a frequentare la scuola coloro che non vogliono andarvi; vale a dire, per creare altrettanti uomini, coscienti di essere uomini, da coloro, che uomini coscienti non vogliono essere creati. A tal uopo basta constatare che ancor oggi esiste un forte tasso di evasione e dispersione scolastica, soprattutto nella scuola secondaria superiore. Oltre tutto, domandiamoci: il governo borbonico, a quei tempi, disponeva dei mezzi, di cui noi oggi siamo in grado di disporre? Non solo : ma le altre regioni d’Italia, salvo pochissime, vantavano poi condizioni di cultura popolare gran che superiori a quelle del Regno di Napoli e delle Due Sicilie?

L’insegnamento superiore nei collegi e nei licei era parimenti impiantato su insegnamenti sostanziali definiti razionalmente. E se lo consideriamo  sia in ordine alla letteratura italiana, che della latina e della greca, siamo tratti a riconoscere che nel complesso l’essenziale c’era, e che questo essenziale  non era poi troppo lontano dai nostri programmi vigenti finora.

E che dire dell’Università napoletana?  Sarebbe un assurdo pensare che essa  rappresentasse uno Studio non all’altezza dei tempi, quando v’insegnavano filosofi come il Galluppi, astronomi come il Nobile, senza contare la schiera dei giureconsulti e dei medici per cui vennero in gloria la scuola giuridica e la scuola medica napoletana.

Occorre poi ricordare le scuole private? Esse crearono uomini di tale genialità, che delle loro opere noi oggi ci nutriamo e dobbiamo nutrirci se vogliamo che la vera sostanza del sapere si compenetri con la nostra mente e con l’animo nostro : uomini che dall’Ateneo napoletano hanno sparso in tutta Italia l’amore alla cultura, la passione alla nostra storia millenaria, il culto dei monumenti. Lo Spaventa, il Fiorentino sono nomi cari agl’italiani, come padri ed amici che li accompagnano e li sostengono nelle ardue prove del sapere e, in cima a tutti, il De Sanctis, che sembra riassumere in sé nella limpidità luminosa del suo genio estetico e del suo carattere morale l’intelletto ed il cuore di tutti”.

Alle precise e lungimiranti riflessioni del D’Anna mi permetto soltanto di aggiungere che le scuole primarie borboniche, pur tra immani difficoltà di varia natura (povertà, lavoro, malattie, indifferenza delle popolazioni e scarsità dei mezzi economici dei governi), registrarono un  calo sia pur lieve dell’analfabetismo, se è vero che nel primo censimento fatto dal governo italiano nel 1861 esso fu dell’87,1% nel Meridione, a fronte del quasi totale analfabetismo trovato dai Borbone, che in alcune zone sfiorava il 100%. D’altronde tale calo è in linea con quello successivo del censimento del 1871, in cui l’analfabetismo del Meridione, nonostante la promulgazione ed i massicci investimenti della legge Casati, fondata sull’obbligatorietà e gratuità dell’insegnamento elementare, scese meno del 3%, passando dall’87,1 all’84,2% (fonte Svimez), e ciò nonostante fosse notevolmente aumentato negli anni il numero delle scuole.

La drammatica realtà dell’analfabetismo nell’Italia meridionale e l’oggettiva difficoltà di scalfirlo è continuata anche negli anni successivi, come dimostra il discorso di Francesco Saverio Nitti, pronunciato alla Camera dei Deputati l’8 maggio 1907, nel quale, rivolgendosi al Presidente del Consiglio dei Ministri , On Giolitti, così affermava (Cfr. Francesco Iesu “Istruzione e salute pubblica in Provincia di Terra di Lavoro dal Regno di Napoli dei Borbone al Regno d’Italia-1734/1885- Edizioni Lavieri Scuola 2007): “In Italia la popolazione scolastica è così scarsa ancora, dopo 50 anni di unità e dopo 30 anni d’istruzione obbligatoria, che si può dire che lo scopo della legge Coppino del 1877  non fu mai realizzato. Vi sono almeno 4 milioni e mezzo di bambini che avrebbero obbligo di seguire le scuole, ma sono appena 2 milioni e 700 mila che le frequentano. Non solo non riusciamo a vincere le difficoltà del passato, ma accumuliamo l’analfabetismo.  Possiamo noi appagarci di questa condizione di cose, quando vediamo intere province, la Basilicata, le Calabrie, gli Abruzzi, che a distanza di 30 anni, rimangono  pressappoco nelle stesse condizioni in cui erano?

Questi dati incontrovertibili fanno apprezzare ancora oggi la forte battaglia di civiltà in favore dell’istruzione popolare  intrapresa dai Borbone, fin dal 1784, con l’istituzione, per la prima volta a cura dello Stato, della scuola pubblica, laica,uniforme e generale per tutti i ceti sociali, chiamata scuola  normale.

A questo punto mi sembra opportuno sfatare una leggenda atavica, secondo cui il fatto che le province meridionali detengono una percentuale più alta di analfabeti significa che quelle popolazioni siano incolte. In proposito, il pedagogista catanese della Scuola idealistica, Giuseppe Lombardo Radice, direttore generale del ministro Gentile, così scriveva nel 1922 in un articolo sulla rivista”La Cultura popolare”:”Però, grazie a Dio, se il Mezzogiorno è popolato di analfabeti, è ricco di quella vera cultura popolare, che è fatta di antica sapienza, e non è frutto dell’informazione scolastica enciclopedica, ma fulcro dell’umana ragione della vita. Un contadino meridionale, “un cafone”, di qualsiasi zona del Sud, è quasi sempre un mirabile narratore di antiche favole e leggende, un vivace amatore della poesia schiettissima che i padri gli hanno tramandato, un sapiente di proverbi, spesso anche un artista spontaneo. In nessuna terra d’Italia si è mantenuta più tenacemente la cultura popolare (di popolo) che la scuola troppo spesso ha il torto di dimenticare, quando inizia la sua opera di dirozzamento, la quale dovrebbe comportare apporti nello sviluppare, utilizzandola, le tradizioni del popolo, traendo così il vivo dal vivo. Da noi quelli che sanno di lettere sono quasi stranieri al popolo, questo sì, ma non perciò superiori al popolo, per dirittura di pensiero, per saldezza di carattere, per capacità di sacrifici, per gioia e poesia del lavoro”.L’illustre pedagogista così concludeva :”La buona razza meridionale è analfabeta, ma non incolta. E’analfabeta, peraltro, non per sua negligenza, ma per le (ataviche) condizioni di povertà, quelle stesse condizioni per le quali è povera di una rete di scuole, ma anche di ospedali, di strade e di ogni altro genere di opere pubbliche. E’ analfabeta, ma desiderosa di educazione spirituale e rispettosa degli studi e degli studiosi”.

 

                                                * Grand’Ufficiale della Repubblica –  Storico della Scuola.

Mattia Branco

Ho diretto, ho collaborato con periodici locali e riviste professionali. Ho condotto per nove anni uno spazio televisivo nel programma "Anja Show".

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