Il seme di Dio cresce. L’uomo deve avere pazienza!

13 giugno 2021/Domenica XI – (Anno B/TO)

Il seme di Dio cresce. L’uomo deve avere pazienza!

Prima lettura: Io umilio l’albero alto e innalzo l’albero basso (Ez 17,22). Seconda lettura: Camminiamo nella fede e non in visione (2Cor 5,6). Terza lettura: Il regno di Dio è simile al seme, al granellino di senapa (Mc 4,26).

Prima lettura: “Coglierò un ramoscello”

Questa profezia è stata pronunciata da Ezechiele in un momento drammatico per Israele: Iehoiakhin/יהויכין (598 a.C.): ultimo re discendente da Davide, era stato sconfitto e deportato a Bavel; era stato re solo per 3 mesi e 10 giorni, poi il re dei neo neobabilonesi, Nabucodonosor II, prese la città, incendiò il tempio e deportò il re con tutta la corte a Bavel, dove Iehoiakhin rimase prigioniero per 37 anni. Questo disastro nazionale mise in crisi la fede di molti ebrei: come può il Signore promettere a Davide una discendenza eterna se poi il suo discendente si trova prigioniero a Bavel? A questo interrogativo Ezechiele – anche lui tra i deportati a Babilonia – risponde con un’immagine: la dinastia di Davide è come un cedro rigoglioso che un barbaro spietato (Nabucodonosor II) ha spezzato. Dio però rimane fedele: andrà a Bavel, coglierà un germoglio del cedro e lo pianterà in terra d’Israele. Questo germoglio fragile si svilupperà fino a diventare un immenso cedro. Iniziava l’attesa del messia Gesù, figlio di Davide. La lettura, quindi, è un invito a fidarsi di Dio, a intravedere, oltre la cronaca quotidiana, il progetto di Dio che viene.

Terza lettura: il seme nella terra

Questa breve parabola, un piccolo gioiello, ci è stata conservata solo da Marco, e può essere divisa in tre parti: la semina (v.26), la crescita (vv.27-28), la mietitura (v.29). La prima e la terza parte sono molto brevi, più estesa è la seconda. Qualche breve sottolineatura:

Cima del cedro… granello di senape. Gesù sta polemizzando con il profeta Ezechiele, che nel cap. 17 del suo libro dice “Il regno: immaginate un monte altissimo e su questo monte un cedro spettacolare”. Se conoscete la bandiera del Libano, c’è un monte con un cedro sopra. Ebbene, Gesù rifiuta quest’idea del regno spettacolare e dice che il regno di Dio è come un piccolo grano di senape. Se qualcuno di voi è stato in Palestina vede che questo granello di senape, essendo un seme piccolino, s’insinua tra le fessure delle case, sopra i tetti, per le strade: cresce dappertutto, fino a diventare pericoloso!

In disparte, ai propri discepoli Gesù spiegava tutto questo: “in disparte” (κατ’ἰδίαν/katà idìan) è un termine tecnico dei Vangeli; tutte le volte che Gesù prende i discepoli in disparte non è un favore o un privilegio che fa loro, ma è un rimprovero: non hanno capito assolutamente niente. Allora Gesù deve rispiegare proprio tutto, perché i discepoli non capiscono, sono dominati dall’idea del successo, dell’ambizione, della carriera.

▪ l’automaticità (αὐτομάτη/automàte): nel processo di crescita del seme, fino alla spiga, c’è un automatismo che sfugge all’azione del contadino: “il seme cresce da se stesso” (Joel Marcus); di notte egli può anche dormire, ma sotto la terra la vita è in attività; questo significa che noi dobbiamo imparare a non agitarci troppo; smetterla con quell’aria di protagonisti salvatori del mondo; se non riusciamo a dormire, affacciamoci alla finestra e ascoltiamo il silenzio del cosmo, appoggiamo come gli indiani l’orecchio sulla terra e avvertiremo il movimento silenzioso della vita, senza che noi possiamo fare nulla;

▪ la crescita è dovuta al dinamismo interiore del seme; Gesù lo fa capire con un climax efficace di verbi: “germoglia, cresce, produce”; il regno di Dio ha una sua efficacia intrinseca, nonostante la opacità del terreno o l’incapacità del contadino; noi facciamo qualcosa, ma il miracolo avviene senza il nostro intervento; a volte non abbiamo fiducia in questo piccolo seme, e diventiamo pessimisti e lamentosi; lo scrittore Cioran ha scritto: “Il cristianesimo ha smesso di essere una fonte di stupore e di scandalo, di scatenare virtù e di fecondare intelligenze”;

▪ l’evangelista non usa il termine seminare ma gettare il seme che rende quasi visibile il gesto ampio e solenne delle braccia del contadino;

nella terra: non in un campo definito e ristretto ma dappertutto, nel mondo intero; Dio semina non in una chiesa soltanto ma in tutti i popoli e religioni: Dio non è di nessuno perciò appartiene a tutti; evitiamo di fare una lettura trionfalistica o apologetica, come se la “chiesa” si identificasse con il “regno”; il regno non dipende da efficientismo, concordati, protezioni: il regno, come il seme, non ha bisogno di grandi numeri ma di profondità. Il punto di riferimento per tutti è il regno di Dio. Non ripetiamo l’errore degli apostoli fanatici, che dicono a Gesù: “Quello non è dei nostri!” (Mc 9,38), perché gli uomini sono tutti “dei nostri”, come noi siamo “di tutti”. Noi tendiamo al regno, e di questo regno nessuno conosce i confini, le forme, le dimensioni. Esso è un mistero, e appartengono a questo regno tutti quelli che realizzano le beatitudini (Mt 5,3), che, in silenziosa operosità, fanno le opere di bene (Mt 25,31). Questa “società aperta” allontana da noi ogni orgoglio, perché ritroviamo l’umiltà evangelica, la solidarietà con gli uomini. Diventiamo gli “amici del genere umano” (Origene), i “cultori dell’uomo” (Paolo VI);

▪ il processo di maturazione va rispettato; chi vuole accelerare, non rispetta la libertà delle persone; hanno fatto male quanti, fin dai tempi di sant’Agostino, hanno giustificato il ricorso alla violenza per costringere a credere, ma ogni violenza in religione (e in educazione!) è immorale ed illegale (L. Milani).

Ritorno alla natura

Ricordiamole queste due parabole, piene di alberi, rami, frutti, germogli, uccelli, spighe, chicchi, contadino, senapa, ombra … Alcuni decenni fa i preti avevano la terra attaccata agli scarponi; coltivavano il giardino e la vigna per il vino della messa, tenevano a posto la cantina, passeggiavano tra i campi e osservavano la natura; le loro prediche avevano poco della sacra eloquenza, ma sapevano farsi ascoltare e soprattutto capire. Oggi i preti non vanno in campagna ma sulle autostrade, le loro prediche sono perfette ma poco interessanti, citano i più moderni “maîtres à penser”, discutono dell’ultimo romanzo che non è ancora uscito; per sentirli parlare di terra, di contadini, bisogna aspettare il vangelo di questa domenica, ma si vede subito che si muovono con difficoltà. Restano sempre attuali le parole di papa Francesco all’omelia del Giovedì Santo (2013): i presbiteri paragonati al pastore, tanto vicini al gregge da portare su di sé l’odore delle pecore. Noi preti dobbiamo ricordare che il cristianesimo non è una dottrina che va dimostrata, ma un mistero che va raccontato. Mi chiedo: perché il cristianesimo non viene “raccontato” attraverso il linguaggio delle cose semplici, e invece viene “spiegato” attraverso le elucubrazioni della ragione raziocinante? Anche Gesù si chiedeva: “A che possiamo paragonare il regno di Dio? Con quale parabola possiamo descriverlo?”. E si guardava intorno, la campagna, i semplici, la vita … Gesù davvero è venuto dall’alto, ma i suoi sandali erano pieni di terra e di vita!

L’essenziale è invisibile

Siamo in un tempo in cui i simboli sacri perdono importanza, il linguaggio si laicizza, le istituzioni religiose sono contestate; qualcuno parla di un’epoca post-cristiana. Questa nostra epoca, però, nonostante tutto, si dice cristiana; fa ancora sua la frase di quel grande filosofo liberale (che cristiano non era!): “Non possiamo non sentirci e non dirci cristiani!”, nel senso che in Europa le norme dell’etica e le concezioni della vita sono legate al grande evento cristiano. Come possiamo reagire a quest’eclissi del sacro? In due modi: o deplorando i tempi presenti, rifugiandoci nel bel tempo passato, o imparando a vivere la fede oggi, anche senza tanti simboli religiosi. Anche un tempo non religioso è un tempo adatto per la fede. Possiamo vivere la fede anche se essa non viene presa in considerazione nelle Costituzioni e nei Codici civili, nei palazzi della politica e nei pretori del potere dove si decide la storia. La fede è umile, è solo una manciata di lievito, un granellino di senape. Quando la fede viene meno, restano in piedi le crisalidi morte, gli involucri vuoti. E allora anche le chiese diventano i “cimiteri di Dio”. La secolarizzazione può diventare una preziosa occasione per purificare la fede dai tanti sacri giocattoli che riempiono la nostra religiosità. La fede può camminare quasi nascosta, fidando soltanto nella parola di Dio. Alcuni anni fa, dopo una conferenza, una ‘pia’ signora mi rimproverò, con garbo, di essere vestito come un uomo qualunque. È vero, può dare scandalo, in un primo momento, il vedere o il sapere che quel signore vestito con abiti normali è invece un prete. Ma viene il tempo in cui la fede non dev’essere arricchita da divise, catalogata nell’organigramma dei ruoli sociali, per cui c’è il militare, il prete, la suora, il carabiniere… Se è profonda e vitale, la fede troverà il modo di esprimersi, di “convincere” con la forza della testimonianza e non di “vincere” con la forza della divisa! Buona Vita!

Parabole di Gesù per il nostro tempo. Il vincitore del concorso per «il bambino più buono dell’anno» è stato un ragazzino, vicino di casa, di un signore di oltre ottant’anni che era appena rimasto vedovo. Quando vide il vecchio piangere, seduto nel suo giardino, il bambino scavalcò la recinzione, si sedette sulle ginocchia dell’uomo e rimase così a lungo. Quando tornò a casa, sua madre gli chiese che cosa aveva detto al povero vecchio. «Niente!», rispose il bambino. «Ha perso la moglie e questo lo ha addolorato. Io mi sono solo seduto con lui, in silenzio, e l’ho aiutato a piangere!». (da: Racconti di Bruno Ferrero, LDC).

השּׁרשים הקּדשים Le Sante Radici

Per contatti: francescogaleone@libero.it

Mattia Branco

Ho diretto, ho collaborato con periodici locali e riviste professionali. Ho condotto per nove anni uno spazio televisivo nel programma "Anja Show".

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