MI RACCOMANDO o TI RACCOMANDO…

Quando il coronavirus ci concede attimi lunghi per riflettere…

di Vittorio Russo

MI RACCOMANDO o TI RACCOMANDO…

Un bel grattacapo!

Non si può dubitare che disponiamo di una lingua faconda e strana, antica e pur sempre freschissima di fonemi nuovi e scintillanti. Bisogna riconoscerlo, la nostra è lingua perennemente guizzante. E perciò anche ricca di vezzi e capricciosa. Come una teenager che, per istinto di Eva, sa di poter arruffare i pensieri di un teenager solo con un sorriso leggiadro.

Mi sono imbattuto per l’ennesima volta in queste due formule consumate dall’uso: MI RACCOMANDO e TI RACCOMANDO. Messi sulla bilancia delle catalogazioni semantiche, i codici che ne regolano il senso è inequivocabile. L’una è l’antitesi dell’altra. Mi raccomando significa: io MI raccomando a te. Ti raccomando, invece, vuol dire: io ti raccomando a TE stesso.

Tuttavia oggi è largamente diffuso il loro uso indifferenziato. Soprattutto nella parlata colloquiale.

E allora mi sono concesso un’indagine, come dire, psicologica del significato di ciascuna espressione.

Non ci crederete, ma nella scelta sono coinvolti registri che abbracciano cultura popolare, stratificazioni filosofiche e perfino riflessioni religiose. Mi spiego. TI RACCOMANDO è concessivo. Significa accordare fiducia. Chiama in causa il libero arbitrio. Vuol dire: Lascio a TE il compito di aver cura di te stesso, di proteggerti, di “comandarti”. Insomma, è espressione della maturità che si riconosce all’interlocutore. L’altra forma, MI RACCOMANDO, chiama in causa il senso della rinuncia, il rimettersi agli altri. Vuol dire: Io do a te il compito di proteggere ME, io raccomando ME a te e quindi sono “commesso” a te. Commettere da “cum mittere”, che vuol dire comandare, in italiano ha smarrito largamente questo significato. L’ha conservato invece in inglese col verbo “to commit” e “commitment”. Mi raccomando è dunque formula di passività, di rinuncia, una subordinazione all’altrui volontà, un bisogno di raccomandazione… di miracoli!

Non mi sono fermato a questa indagine personalistica, e quindi legittimamente discutibile. Sono andato a esplorare nel cervellone dell’Accademia della Crusca. Ho trovato che la forma MI raccomando rispetto a TI raccomando, prevale tre volte su quattro. Il WEB ne dà conferma.

Vuol dire che inconsciamente gli italiani amano rimettersi alla protezione di qualcuno rinunciando a fare da soli? Non so. La storia che è maestra di vita qualche esempio ce lo fornisce. Peccato che noi siamo pessimi alunni.

È certo in ogni caso che è proprio della nostra cultura il concetto di raccomandazione. Noi italiani più di tanta altra brava gente abbiamo costantemente bisogno di affidarci a qualcuno, di raccomandarci a qualcuno, a un santo in cielo (ma meglio in terra se ha le mani in pasta). Insomma, a uno che risolva i nostri problemi. Questa ineliminabilità della raccomandazione è resa bene, a mio avviso, proprio da quel prevalere istintivo del Mi raccomando sul Ti raccomando.

È un brutto segno, testimonia una fragilità culturale della società che andrebbe curata.

Occorrerebbero scelte politiche di petto capaci di puntare sull’istruzione da mettere al centro di tutto. E quindi di ridare alla scuola la “gravitas” di un ruolo smarrito. Di restituire ai docenti il prestigio di una funzione nobile. E quindi di investire nella ricerca ecc. ecc.

Per concludere, quali che siano le opinioni e le filosofie dietro le due forme del tema, ricordiamo intanto a noi stessi che il coronavirus non fa distinzione di catalogazione morfologiche e lessicali. Non abbiamo bisogno di un ministro della Speranza ma di uno della Salute. Perciò, non raccomandiamoci ad altri per la nostra protezione ma a noi stessi, con le cautele che gli altri possono solo suggerirci.

Mattia Branco

Ho diretto, ho collaborato con periodici locali e riviste professionali. Ho condotto per nove anni uno spazio televisivo nel programma "Anja Show".

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