Per la Giornata dell’Ebraismo

Ogni anno, dal 1990, il 17 gennaio si celebra la Giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo tra cattolici ed ebrei; il compito è imparare a guardarsi con cuore disarmato, riconoscendo lo strettissimo legame tra le due comunità di fede. Nel 2022 come tema per la 33ª edizione dell’iniziativa, la Commissione episcopale Cei per l’ecumenismo e il dialogo ha scelto un passo del profeta Geremia: “Realizzerò la mia buona promessa” (Ger 29,10).

1) Il dialogo con gli ebrei, i nostri “fratelli prediletti”, non è facile. Dobbiamo ricordare che essi vengono da una vita durissima, che ha le sue origini nella schiavitù in Egitto (prima Shoàh, 1300 a.e.v.), nella devastazione di Yerushalàim da parte dei babilonesi (seconda Shoàh, 586 a.e.v.), nella distruzione di Yerushalàim e del suo Tempio (terza Shoàh, nel 70 con l’imperatore Tito e nel 132 con l’imperatore Adriano), nell’espulsione delle comunità ebraiche dalla Spagna (1492, quarta Shoàh), massacri e pogrom nell’Europa orientale (quinta Shoàh, secc. XVII-XX), nel genocidio perpetrato dalla Germania nazista (sesta Shoàh, 1939). Non basta una conoscenza dei problemi, non basta non essere antisemita. Occorre amare Israele con un amore aperto a tutto e a tutti. Occorre amare la loro cultura e la loro lingua, la loro musica e la loro letteratura, le loro preghiere e le loro feste… Solo un amore così permette il superamento dei timori e dà al dialogo quella gioia che nasce quando due amici si rivedono.

2) La separazione tra il ramo cristiano e quello farisaico avvenne, purtroppo, in un clima di scontro che avrebbe avvelenato per secoli i loro rapporti. La tolleranza religiosa è un’idea moderna, e non si può dire che sia troppo popolare nemmeno al giorno d’oggi. Allora la polemica fu durissima, fondata su un sostanziale rifiuto di capire le ragioni dell’altro e sul dileggio dell’avversario. Dal punto di vista “cristiano”, quegli ebrei che non accettavano la rivelazione cristiana erano degli illusi e degli ipocriti (e non è escluso che alcuni di loro lo fossero realmente). Dal punto di vista “giudaico”, quegli ebrei che non accettavano la centralità della Toràh erano degli illusi e degli opportunisti (e non è escluso che alcuni di loro lo fossero realmente). Ma il linguaggio della polemica e dello scontro non deve farci perdere di vista la serietà delle rispettive posizioni e la buona fede di entrambi.

Nel leggere quelle pagine amare si dimentica spesso che la polemica fu pur sempre una polemica di ebrei verso altri ebrei, del tutto priva di quelle connotazioni anti-giudaiche che alimenteranno secoli e secoli di antisemitismo e persecuzione razziale nei confronti del popolo ebraico. La resa dei conti (e il conseguente scisma) non fu dunque tra ebrei e cristiani, ma tra due forme, nuove e alternative, di Giudaismo: ebrei fedeli a Mosè ed ebrei seguaci di Gesù.

3) I cristiani, dunque, devono studiare il Rabbinismo per capire meglio le “loro” radici, ma è vero che anche gli ebrei devono studiare il Cristianesimo per capire meglio le “proprie” radici. È importante sottolineare che il Cristianesimo non è il Giudaismo più il Cristo, né il Rabbinismo una forma mancata di Cristianesimo. Cristianesimo e Giudaismo rabbinico sono due sviluppi autonomi e paralleli del Giudaismo antico. Ancora più importante è che ebrei e cristiani imparino a riconoscersi gli uni gli altri non soltanto per quello che erano, ma anche per quello che sono diventati.

4) Molte, troppe cose sono successe in 2000 anni; nessuno dei due fratelli è più lo stesso di un tempo. Una riconciliazione tra ebrei e cristiani di oggi non può essere altro che un’amicizia ritrovata nella diversità e nel riconoscimento reciproco delle rispettive identità. Ciò passa anzitutto attraverso un onesto e pieno riconoscimento delle violenze compiute “da chiunque”.

La riconciliazione sarà compiuta quando cristiani ed ebrei avranno sviluppato quello che potremmo definire un sano orgoglio di appartenenza alla stessa famiglia, senza indebite ingerenze, invidie o sensi di superiorità.

Ciò che il nostro fratello ha conseguito, e consegue, non appartiene alla nostra storia: guai se l’altro fratello pretendesse di appropriarsene! Eppure tutto ciò che il nostro fratello fa ci riguarda, perché appartiene alla storia della nostra famiglia.

5) Tempo verrà che cristiani ed ebrei, come buoni fratelli, impareranno a parlare l’uno dell’altro con ammirazione ma anche con discrezione. La vicenda di ebrei e cristiani ricorda quella dei due figli di Rebecca, Giacobbe e Esaù, come con molto acume ha sottolineato lo studioso ebreo-americano Alan F. Segal.

I due fratelli gemelli – così simili e così diversi: l’uno peloso, l’altro liscio di pelle; l’uno così forte, l’altro fin troppo furbo – si combatterono fin nel ventre materno per condurre una vita nello scontro, nella paura o nell’indifferenza reciproca.

Ma poi l’impossibile accadde: dopo anni di separazione e pur tra mille sospetti, le loro strade si incontrarono di nuovo, e allora “corsisi incontro, si abbracciarono, si baciarono e piansero” (Gen 33,4). E quando il padre Isacco morì, c’erano entrambi a seppellirlo e a venerarne la memoria (Gen 35,29); riconciliati alfine con il passato, proseguirono ciascuno il proprio cammino nella propria distinta identità di uomini maturi. Anche gli ebrei e i cristiani – così simili e così diversi – si sono disputati per secoli la primogenitura (la patente di “vero Israele”) in una contesa senza fine. Ma era davvero così essenziale stabilire chi è Giacobbe e chi Esaù? Chi è più forte e chi è più furbo? Chi ha tutti i diritti e chi li ha persi? O non è più importante riconoscersi fratelli e coeredi di diritto della stessa tradizione e servire Dio “con una sola voce e sotto uno stesso giogo” (Sof 3,9)?

6) Lavorare per estendere il suo Regno, per santificare il suo Nome, per fare la sua Volontà: questo è il compito, umile e grandioso, che Dio affida alla Chiesa, madre e maestra, a tutti i credenti di buona volontà, a tutti i fedeli che lo cercano con cuore sincero. Non ci salviamo perché battezzati o circoncisi, perché educati in una scuola cattolica o in una yeshivàh rabbinica o in una moschea musulmana. Davanti a Dio esiste questa sola distinzione: chi ama e chi odia, chi costruisce la Civiltà dell’amore e la Torre di Babele, chi ascolta Dio e chi lo rifiuta.

7) La “Valle di Giosafat” per tutti, non è un luogo particolare ma l’amore universale di Dio-Abbà rivelato dal Figlio Gesù, che ha dato vita ad una “chiesa” intesa non in senso angusto (cristiana, ortodossa, sinagoga, moschea, fiume sacro) ma augusto, cioè a un raduno ecumenico universale. “Sentire cum Ecclesia” significa, allora, fare visita alla sinagoga e alla moschea, incontrare l’uomo, ogni uomo, fatto a “imago et similitudo Dei”.

8) Il punto riferimento per tutti è il Regno di Dio. Rifiutiamo ogni consorteria, ogni distinzione tra noi e loro. Non ripetiamo l’errore degli apostoli fanatici, che dicono a Gesù: “Quello non è dei nostri”, perché gli uomini sono tutti “dei nostri”, come noi siamo “di tutti”.

Noi tendiamo al Regno, che invochiamo ogni volta che recitiamo la preghiera universale del Pater Noster. E di questo Regno nessuno conosce i confini, le forme, le dimensioni. Esso è un mistero, e appartengono a questo Regno tutti quelli che realizzano le Beatitudini (Mt 5,3), che, in silenziosa operosità, fanno le opere di bene (Mt 25,31).

Questa “società aperta” allontana da noi ogni orgoglio, perché ritroviamo l’umiltà evangelica, la solidarietà con gli uomini. Diventiamo, secondo la bella espressione di Origene, “amici del genere umano”.

Necessità di una riparazione teologica

9) Questo articolo nasce come riparazione teologica per Auschwitz: “Come spiegare i tanti silenzi della ragione e della religione? Come spiegare il rifiuto degli Alleati di bombardare almeno le linee ferroviarie che conducevano alle fabbriche di morte?… Sulle vittime incombeva la notte più profonda. Dimenticate e abbandonate da Dio, vivevano da sole, soffrivano da sole, lottavano da sole… Senza alleati, senza amici, totalmente, disperatamente soli. Il mondo lo sapeva ma non fiatò. L’umanità li lasciò soffrire, agonizzare, perire, da soli. Eppure non sono stati soltanto loro a morire: una parte di noi tutti è morta con loro” (1).

10) Auschwitz svolge una funzione ermeneutica, segna un punto diacritico: ogni teologia che voglia prescindere da quell’accadimento terribile è solo blasfema e mistificatrice. J. B. Metz, in area cattolica, è stato il pensatore più sensibile a riguardo, ma il suo giudizio è severo: “I morti di Auschwitz avrebbero dovuto cambiare tutto; niente del nostro Popolo e delle nostre Chiese avrebbe dovuto continuare come prima. Auschwitz, invece, viene considerato come un semplice incidente, deplorabile, ma da archiviare quanto prima” (2).

11) Numerosi Padri della Chiesa hanno scritto Tractatus adversus Yudaeos (3); il loro antigiudaismo è giunto fino a noi; forse è stata superata, nei confronti degli ebrei, la “teologia del disprezzo”, ma persiste quella della ignoranza e della indifferenza. Pochi cristiani sanno che dieci milioni di ebrei circa sono stati eliminati, prima che la Shoàh ne uccidesse altri sei. Pochi sono informati delle polimorfe degradazioni alle quali gli ebrei sono stati sottoposti lungo i secoli. Ancor meno sono consapevoli che questa tenace intolleranza affonda le sue radici in una certa teologia cristiana.

Nel secolo XVI, il filosofo Erasmo dichiarò: “Se odiare gli ebrei significa essere un buon cristiano, siamo tutti buoni cristiani!”.

12) Oggi, in sintonia con il mutamento operato dal Vaticano II, matura il tempo della “conoscenza” e “ri-conoscenza” reciproca. Intendiamo contribuire a smantellare tanti luoghi comuni contro gli ebrei, che furono e restano la Radice, le Fondamenta, la Città di noi cristiani che siamo diventati, grazie a loro, l’Albero, l’Edificio, i Cittadini, per usare tre immagini di Paolo apostolo (Rm 11,16).

13) È molto più quanto ci unisce che quanto ci divide. La “conoscenza” può trasformarsi in “ri-conoscenza”, il monologo dogmatico in dialogo rispettoso, l’ideologia del disprezzo in teologia della conversione.

Sì, perché il nemico è solo un fratello sconosciuto. Dialogare, quindi, non è un lusso né una tattica ma una necessità teologica. Dialogare è scoprire che anche gli altri hanno una spiritualità profonda da suscitare commozione e ammirazione.

È accorgersi che anche gli altri possiedono, come noi, un tesoro che, messo in comune, può arricchire tutti. Siamo arrivati alla tragedia della Shoàh perché abbiamo interrotto questo dialogo, elaborando teologie e codici razionalmente perfetti, ma teologicamente aridi.

Necessità di riscoprire l’Ebraismo

14) Il Cristianesimo non è nato bello e perfetto come la classica Minerva tutta armata dal cervello di Giove, o come un colpo di pistola, secondo l’immagine del filosofo Schelling.

Immaginare che il Cristianesimo sia sorto per una specie di generazione spontanea, di partenogenesi, senza padre né madre, come Melkisedek, significa sostenere che una figlia (la Chiesa) non ha una madre (la Sinagoga), che un effetto non ha una causa.

Affermare questi collegamenti non vuol dire negare l’originalità del Vangelo cristiano, ma solo ribadire che il rapporto fra le due religioni è complesso, ricco, dialettico, come nella diade madre-figlia.

Occorre riscoprire l’Ebraismo per due ragioni:

15) La prima, parte dall’osservazione che la Cristologia era imperfetta nel senso che non rispettava tutti i dati della tradizione cristiana. Era una Cristologia “cripto-monofisita”.

Il monofisismo è un’eresia condannata dalla Chiesa nel 451 a Calcedonia, perché divinizzava l’umanità di Gesù; essa, al contatto con la divinità, si sarebbe annullata, come una goccia di acqua dolce viene assorbita nell’oceano. Il Concilio di Calcedonia ha, invece, affermato che, nell’unione con la divinità, l’umanità di Cristo è rimasta interamente umana, e usa quattro avverbi: “senza confusione, senza mutazione, senza separazione, senza divisione”. Quindi Cristo è insieme vero uomo e vero Dio. Tutto questo interessa l’Ebraismo, perché nel monofisismo vale solo la realtà divina. Quando, invece, si recupera l’umanità di Cristo, allora acquistano valore l’ebraicità, il clima in cui è cresciuto in sapienza e grazia, i suoi educatori, le feste religiose e i canti, le tradizioni popolari, il paese e la sinagoga di Nazaret… La eresia del monofisismo fu condannata, è vero, tuttavia riuscì a diffondersi in ambiti estesi del mondo cristiano.

Il recupero delle matrici ebraiche non è solo nostalgia di una dimensione perduta, ma condizione assoluta per capire l’origine e lo sviluppo della Chiesa.

16) La seconda, parte dalla convinzione che il Cristianesimo – passando dalle categorie ebraiche a quelle greche – ha subìto una deviazione (4). Da questa violenta e non riuscita fusione di Ellenismo ed Ebraismo sono nate le tante dispute teologiche e le drammatiche eresie. La Cristologia, più della Ecclesiologia, ha sofferto per questo “letto di Procuste”. Le categorie greco-romane, infatti, mal si adattano alla persona di Cristo. I dogmi cristologici dei Concili di Nicea (325), Costantinopoli (381), Efeso (431), Calcedonia (451), sono tutti all’insegna della filosofia platonica e aristotelica, molto lontana dalle categorie religiose ebraiche. Leonard Swidler ha scritto che dare un senso “ontologico” al linguaggio “non-ontologico” degli ebrei, di Gesù, degli apostoli, significa fare “eis-egesi” e non “ex-egesi” (5).

17) La verità del Messia poteva essere meglio espressa all’interno dell’Ebraismo? Sì, e un fatto lo dimostra. Nel Protoconcilio di Gerusalemme, venti anni circa dopo la morte di Cristo, gli Apostoli dovettero affrontare un grosso problema: l’identità del Cristianesimo; eppure tutto venne risolto bene, perché le categorie teologiche e il codice linguistico erano comuni; la innovativa corrente di Paolo e quella tradizionale di Pietro si completavano a vicenda, a tutto vantaggio della diffusione del Vangelo.

In origine le due Chiese, quella ex circumcisione (dal mondo ebraico) e quella ex gentibus (dal mondo pagano), coesistevano anche se non sempre pacificamente.

18) Molte Chiese locali hanno prodotto Sussidi pastorali per una migliore conoscenza dell’Ebraismo. Per restare in Italia, il 28 settembre 1989, la CEI ha stabilito che ogni anno, il 17 gennaio, si celebri la “Giornata dell’Ebraismo”, per approfondire e sviluppare il dialogo religioso ebraico-cristiano. Tale dialogo è necessario perché l’Ebraismo “non è estrinseco a noi, ma, in un certo modo, è intrinseco alla nostra stessa religione” (Giovanni Paolo II, Sinagoga di Roma, 13 aprile 1986). L’Ebraismo è stato per il nostro Occidente, e non solo, quello che il seme è per l’albero: come da quel piccolo seme vengono fuori foglie e fiori e frutti, così dalla matrice ebraica sono venuti a noi valori e sistemi che strutturano tutta la nostra vita. Sì, davvero “Tutti là siamo nati” (Sal 87,4).

c. Necessità di una catechesi nuova

19) Alla base del rapporto ebrei-cristiani c’è anche il problema di una nuova catechesi. Molto più positivo sarebbe stato questo rapporto se, presentando l’Ebraismo, i cristiani avessero usato immagini diverse. Per esempio:

-) Fondamento/Edificio

La nuova immagine di Fondamento/Edificio ha il vantaggio di eliminare ogni ambiguità e di mostrare quel valore permanente di cui parla il documento conciliare. Il Fondamento, infatti, rispetto all’Edificio non solo non è mai scaduto o sorpassato, ma sempre valido, esistendo e resistendo il secondo grazie al primo.

-) Radice/Albero

È Paolo stesso che utilizza l’immagine, quando parla dei cristiani di origine pagana come “rami di ulivo selvatico” innestati “sulla radice dell’ulivo buono” che è il popolo ebraico (Rm 11,17). Sfortunatamente questa immagine non ha avuto sviluppo, e sono state preferite quelle dualistiche di Noi/Loro, Luce/Tenebre, Spirito/Legge, Antico/ Nuovo… dichiarando la fine dell’Israele credente e la sua insignificanza.

-) Città/Cittadinanza

Anche questa è Paolo a utilizzarla: “Ricordatevi che un tempo, voi, pagani per nascita, eravate senza Cristo, esclusi dalla cittadinanza di Israele, estranei alle alleanze della Promessa. Ora invece in Cristo Gesù siete diventati i vicini” (Ef 2,11). La metafora dell’Apostolo è chiara: Israele è la Città della quale la Chiesa entra a far parte assumendone la Cittadinanza, la Città nella quale entra come ospite e siede a mensa con Abramo (Mt 8,11). Anche questa immagine, come le precedenti, veicola sensazioni positive, complementari e fraterne.

29) Il buon Girolamo, dopo avere letto che “le cose dette in ebraico non hanno la stessa forza quando sono tradotte in altre lingue” (Sir Prologo 21), si convinse della necessità dello studio dell’ebraico e lo iniziò a studiare a 30 anni! Anche la PCB dichiara che l’ebraico, il latino e il greco sono necessari altrimenti i “chierici restano nella ignoranza” (1950). Anche gli scritti nel NT, pur redatti in greco, vennero scritti da autori di cultura ebraica. Pilato fece scrivere sul cartello “Gesù di Nazaret, re dei giudei in ebraico, latino e greco” (Gv 19,19). È vero: tradurre è sempre un po’ tradire. Forse sarebbe conveniente studiare “ebraico biblico” in tutti i Seminari e Facoltà di teologia! Un buon annunciatore della Parola di Dio deve conoscere – bene – tre lingue: l’ebraico, il greco e il latino.

A cura di Franco GALEONE

francescogaleone@libero.it

NOTE NOTA 1. E. WIESEL, La notte, Giuntina, Firenze 1994; Wiesel, deportato ad Auschwitz e Buchenwald, nel 1986 premio Nobel per la pace, resta oggi una delle voci più amare e più scarne, più compromettenti e più liberanti; alternando rapsodicamente racconti e dialoghi che rievocano lo strazio della Shoàh, Wiesel f a riflettere sugli errori e orrori perpetrati durante il sonno della ragione e della religione. Ricordiamo anche le terribili testimonianze di P. Levi in Se questo è un uomo, Einaudi, Torino 1957; dello stesso autore, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino 1986. Utile sarà anche consultare: R. De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Einaudi, Torino 1961; L. Poliakov, Il nazismo e lo sterminio degli ebrei, Einaudi, Torino 1955; F. Lovsky, Sguardo teologico cristiano sull’antisemitismo, in Il regno, Documenti, 11/1984, p.365.

NOTA 2. J. B. METZ, Al di là della religione borghese, Queriniana, Brescia 1981; cfr. anche Concilium 5/1984, n. 195, p.45.

NOTA 3. Una sinossi degli scritti Adversus Yudaeos viene presentata da M. Simon in Verus Israel. Étude sur les relations entre chretiens et yuifs dans l’empire romain, Parigi 1964; cfr. anche K. H. Rengstorf – S. Von Kortzfleisch, Kirche und Sinagoge, I, Stoccarda 1968, pp.50-209.

NOTA 4. JACQUES ELLUL, cristiano della chiesa riformata di Francia, autore di Anarchia e cristianesimo, tradotto da Eleutheteria, Milano 1993. NOTA 5. L. SWIDLER, Paralleli con l’etica ebraico-cristiana, EDB, Bologna 1993.

Per la Giornata dell’Ebraismo

Ogni anno, dal 1990, il 17 gennaio si celebra la Giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo tra cattolici ed ebrei; il compito è imparare a guardarsi con cuore disarmato, riconoscendo lo strettissimo legame tra le due comunità di fede. Nel 2022 come tema per la 33ª edizione dell’iniziativa, la Commissione episcopale Cei per l’ecumenismo e il dialogo ha scelto un passo del profeta Geremia: “Realizzerò la mia buona promessa” (Ger 29,10).

1) Il dialogo con gli ebrei, i nostri “fratelli prediletti”, non è facile. Dobbiamo ricordare che essi vengono da una vita durissima, che ha le sue origini nella schiavitù in Egitto (prima Shoàh, 1300 a.e.v.), nella devastazione di Yerushalàim da parte dei babilonesi (seconda Shoàh, 586 a.e.v.), nella distruzione di Yerushalàim e del suo Tempio (terza Shoàh, nel 70 con l’imperatore Tito e nel 132 con l’imperatore Adriano), nell’espulsione delle comunità ebraiche dalla Spagna (1492, quarta Shoàh), massacri e pogrom nell’Europa orientale (quinta Shoàh, secc. XVII-XX), nel genocidio perpetrato dalla Germania nazista (sesta Shoàh, 1939). Non basta una conoscenza dei problemi, non basta non essere antisemita. Occorre amare Israele con un amore aperto a tutto e a tutti. Occorre amare la loro cultura e la loro lingua, la loro musica e la loro letteratura, le loro preghiere e le loro feste… Solo un amore così permette il superamento dei timori e dà al dialogo quella gioia che nasce quando due amici si rivedono.

2) La separazione tra il ramo cristiano e quello farisaico avvenne, purtroppo, in un clima di scontro che avrebbe avvelenato per secoli i loro rapporti. La tolleranza religiosa è un’idea moderna, e non si può dire che sia troppo popolare nemmeno al giorno d’oggi. Allora la polemica fu durissima, fondata su un sostanziale rifiuto di capire le ragioni dell’altro e sul dileggio dell’avversario. Dal punto di vista “cristiano”, quegli ebrei che non accettavano la rivelazione cristiana erano degli illusi e degli ipocriti (e non è escluso che alcuni di loro lo fossero realmente). Dal punto di vista “giudaico”, quegli ebrei che non accettavano la centralità della Toràh erano degli illusi e degli opportunisti (e non è escluso che alcuni di loro lo fossero realmente). Ma il linguaggio della polemica e dello scontro non deve farci perdere di vista la serietà delle rispettive posizioni e la buona fede di entrambi.

Nel leggere quelle pagine amare si dimentica spesso che la polemica fu pur sempre una polemica di ebrei verso altri ebrei, del tutto priva di quelle connotazioni anti-giudaiche che alimenteranno secoli e secoli di antisemitismo e persecuzione razziale nei confronti del popolo ebraico. La resa dei conti (e il conseguente scisma) non fu dunque tra ebrei e cristiani, ma tra due forme, nuove e alternative, di Giudaismo: ebrei fedeli a Mosè ed ebrei seguaci di Gesù.

3) I cristiani, dunque, devono studiare il Rabbinismo per capire meglio le “loro” radici, ma è vero che anche gli ebrei devono studiare il Cristianesimo per capire meglio le “proprie” radici. È importante sottolineare che il Cristianesimo non è il Giudaismo più il Cristo, né il Rabbinismo una forma mancata di Cristianesimo. Cristianesimo e Giudaismo rabbinico sono due sviluppi autonomi e paralleli del Giudaismo antico. Ancora più importante è che ebrei e cristiani imparino a riconoscersi gli uni gli altri non soltanto per quello che erano, ma anche per quello che sono diventati.

4) Molte, troppe cose sono successe in 2000 anni; nessuno dei due fratelli è più lo stesso di un tempo. Una riconciliazione tra ebrei e cristiani di oggi non può essere altro che un’amicizia ritrovata nella diversità e nel riconoscimento reciproco delle rispettive identità. Ciò passa anzitutto attraverso un onesto e pieno riconoscimento delle violenze compiute “da chiunque”.

La riconciliazione sarà compiuta quando cristiani ed ebrei avranno sviluppato quello che potremmo definire un sano orgoglio di appartenenza alla stessa famiglia, senza indebite ingerenze, invidie o sensi di superiorità.

Ciò che il nostro fratello ha conseguito, e consegue, non appartiene alla nostra storia: guai se l’altro fratello pretendesse di appropriarsene! Eppure tutto ciò che il nostro fratello fa ci riguarda, perché appartiene alla storia della nostra famiglia.

5) Tempo verrà che cristiani ed ebrei, come buoni fratelli, impareranno a parlare l’uno dell’altro con ammirazione ma anche con discrezione. La vicenda di ebrei e cristiani ricorda quella dei due figli di Rebecca, Giacobbe e Esaù, come con molto acume ha sottolineato lo studioso ebreo-americano Alan F. Segal.

I due fratelli gemelli – così simili e così diversi: l’uno peloso, l’altro liscio di pelle; l’uno così forte, l’altro fin troppo furbo – si combatterono fin nel ventre materno per condurre una vita nello scontro, nella paura o nell’indifferenza reciproca.

Ma poi l’impossibile accadde: dopo anni di separazione e pur tra mille sospetti, le loro strade si incontrarono di nuovo, e allora “corsisi incontro, si abbracciarono, si baciarono e piansero” (Gen 33,4). E quando il padre Isacco morì, c’erano entrambi a seppellirlo e a venerarne la memoria (Gen 35,29); riconciliati alfine con il passato, proseguirono ciascuno il proprio cammino nella propria distinta identità di uomini maturi. Anche gli ebrei e i cristiani – così simili e così diversi – si sono disputati per secoli la primogenitura (la patente di “vero Israele”) in una contesa senza fine. Ma era davvero così essenziale stabilire chi è Giacobbe e chi Esaù? Chi è più forte e chi è più furbo? Chi ha tutti i diritti e chi li ha persi? O non è più importante riconoscersi fratelli e coeredi di diritto della stessa tradizione e servire Dio “con una sola voce e sotto uno stesso giogo” (Sof 3,9)?

6) Lavorare per estendere il suo Regno, per santificare il suo Nome, per fare la sua Volontà: questo è il compito, umile e grandioso, che Dio affida alla Chiesa, madre e maestra, a tutti i credenti di buona volontà, a tutti i fedeli che lo cercano con cuore sincero. Non ci salviamo perché battezzati o circoncisi, perché educati in una scuola cattolica o in una yeshivàh rabbinica o in una moschea musulmana. Davanti a Dio esiste questa sola distinzione: chi ama e chi odia, chi costruisce la Civiltà dell’amore e la Torre di Babele, chi ascolta Dio e chi lo rifiuta.

7) La “Valle di Giosafat” per tutti, non è un luogo particolare ma l’amore universale di Dio-Abbà rivelato dal Figlio Gesù, che ha dato vita ad una “chiesa” intesa non in senso angusto (cristiana, ortodossa, sinagoga, moschea, fiume sacro) ma augusto, cioè a un raduno ecumenico universale. “Sentire cum Ecclesia” significa, allora, fare visita alla sinagoga e alla moschea, incontrare l’uomo, ogni uomo, fatto a “imago et similitudo Dei”.

8) Il punto riferimento per tutti è il Regno di Dio. Rifiutiamo ogni consorteria, ogni distinzione tra noi e loro. Non ripetiamo l’errore degli apostoli fanatici, che dicono a Gesù: “Quello non è dei nostri”, perché gli uomini sono tutti “dei nostri”, come noi siamo “di tutti”.

Noi tendiamo al Regno, che invochiamo ogni volta che recitiamo la preghiera universale del Pater Noster. E di questo Regno nessuno conosce i confini, le forme, le dimensioni. Esso è un mistero, e appartengono a questo Regno tutti quelli che realizzano le Beatitudini (Mt 5,3), che, in silenziosa operosità, fanno le opere di bene (Mt 25,31).

Questa “società aperta” allontana da noi ogni orgoglio, perché ritroviamo l’umiltà evangelica, la solidarietà con gli uomini. Diventiamo, secondo la bella espressione di Origene, “amici del genere umano”.

Necessità di una riparazione teologica

9) Questo articolo nasce come riparazione teologica per Auschwitz: “Come spiegare i tanti silenzi della ragione e della religione? Come spiegare il rifiuto degli Alleati di bombardare almeno le linee ferroviarie che conducevano alle fabbriche di morte?… Sulle vittime incombeva la notte più profonda. Dimenticate e abbandonate da Dio, vivevano da sole, soffrivano da sole, lottavano da sole… Senza alleati, senza amici, totalmente, disperatamente soli. Il mondo lo sapeva ma non fiatò. L’umanità li lasciò soffrire, agonizzare, perire, da soli. Eppure non sono stati soltanto loro a morire: una parte di noi tutti è morta con loro” (1).

10) Auschwitz svolge una funzione ermeneutica, segna un punto diacritico: ogni teologia che voglia prescindere da quell’accadimento terribile è solo blasfema e mistificatrice. J. B. Metz, in area cattolica, è stato il pensatore più sensibile a riguardo, ma il suo giudizio è severo: “I morti di Auschwitz avrebbero dovuto cambiare tutto; niente del nostro Popolo e delle nostre Chiese avrebbe dovuto continuare come prima. Auschwitz, invece, viene considerato come un semplice incidente, deplorabile, ma da archiviare quanto prima” (2).

11) Numerosi Padri della Chiesa hanno scritto Tractatus adversus Yudaeos (3); il loro antigiudaismo è giunto fino a noi; forse è stata superata, nei confronti degli ebrei, la “teologia del disprezzo”, ma persiste quella della ignoranza e della indifferenza. Pochi cristiani sanno che dieci milioni di ebrei circa sono stati eliminati, prima che la Shoàh ne uccidesse altri sei. Pochi sono informati delle polimorfe degradazioni alle quali gli ebrei sono stati sottoposti lungo i secoli. Ancor meno sono consapevoli che questa tenace intolleranza affonda le sue radici in una certa teologia cristiana.

Nel secolo XVI, il filosofo Erasmo dichiarò: “Se odiare gli ebrei significa essere un buon cristiano, siamo tutti buoni cristiani!”.

12) Oggi, in sintonia con il mutamento operato dal Vaticano II, matura il tempo della “conoscenza” e “ri-conoscenza” reciproca. Intendiamo contribuire a smantellare tanti luoghi comuni contro gli ebrei, che furono e restano la Radice, le Fondamenta, la Città di noi cristiani che siamo diventati, grazie a loro, l’Albero, l’Edificio, i Cittadini, per usare tre immagini di Paolo apostolo (Rm 11,16).

13) È molto più quanto ci unisce che quanto ci divide. La “conoscenza” può trasformarsi in “ri-conoscenza”, il monologo dogmatico in dialogo rispettoso, l’ideologia del disprezzo in teologia della conversione.

Sì, perché il nemico è solo un fratello sconosciuto. Dialogare, quindi, non è un lusso né una tattica ma una necessità teologica. Dialogare è scoprire che anche gli altri hanno una spiritualità profonda da suscitare commozione e ammirazione.

È accorgersi che anche gli altri possiedono, come noi, un tesoro che, messo in comune, può arricchire tutti. Siamo arrivati alla tragedia della Shoàh perché abbiamo interrotto questo dialogo, elaborando teologie e codici razionalmente perfetti, ma teologicamente aridi.

Necessità di riscoprire l’Ebraismo

14) Il Cristianesimo non è nato bello e perfetto come la classica Minerva tutta armata dal cervello di Giove, o come un colpo di pistola, secondo l’immagine del filosofo Schelling.

Immaginare che il Cristianesimo sia sorto per una specie di generazione spontanea, di partenogenesi, senza padre né madre, come Melkisedek, significa sostenere che una figlia (la Chiesa) non ha una madre (la Sinagoga), che un effetto non ha una causa.

Affermare questi collegamenti non vuol dire negare l’originalità del Vangelo cristiano, ma solo ribadire che il rapporto fra le due religioni è complesso, ricco, dialettico, come nella diade madre-figlia.

Occorre riscoprire l’Ebraismo per due ragioni:

15) La prima, parte dall’osservazione che la Cristologia era imperfetta nel senso che non rispettava tutti i dati della tradizione cristiana. Era una Cristologia “cripto-monofisita”.

Il monofisismo è un’eresia condannata dalla Chiesa nel 451 a Calcedonia, perché divinizzava l’umanità di Gesù; essa, al contatto con la divinità, si sarebbe annullata, come una goccia di acqua dolce viene assorbita nell’oceano. Il Concilio di Calcedonia ha, invece, affermato che, nell’unione con la divinità, l’umanità di Cristo è rimasta interamente umana, e usa quattro avverbi: “senza confusione, senza mutazione, senza separazione, senza divisione”. Quindi Cristo è insieme vero uomo e vero Dio. Tutto questo interessa l’Ebraismo, perché nel monofisismo vale solo la realtà divina. Quando, invece, si recupera l’umanità di Cristo, allora acquistano valore l’ebraicità, il clima in cui è cresciuto in sapienza e grazia, i suoi educatori, le feste religiose e i canti, le tradizioni popolari, il paese e la sinagoga di Nazaret… La eresia del monofisismo fu condannata, è vero, tuttavia riuscì a diffondersi in ambiti estesi del mondo cristiano.

Il recupero delle matrici ebraiche non è solo nostalgia di una dimensione perduta, ma condizione assoluta per capire l’origine e lo sviluppo della Chiesa.

16) La seconda, parte dalla convinzione che il Cristianesimo – passando dalle categorie ebraiche a quelle greche – ha subìto una deviazione (4). Da questa violenta e non riuscita fusione di Ellenismo ed Ebraismo sono nate le tante dispute teologiche e le drammatiche eresie. La Cristologia, più della Ecclesiologia, ha sofferto per questo “letto di Procuste”. Le categorie greco-romane, infatti, mal si adattano alla persona di Cristo. I dogmi cristologici dei Concili di Nicea (325), Costantinopoli (381), Efeso (431), Calcedonia (451), sono tutti all’insegna della filosofia platonica e aristotelica, molto lontana dalle categorie religiose ebraiche. Leonard Swidler ha scritto che dare un senso “ontologico” al linguaggio “non-ontologico” degli ebrei, di Gesù, degli apostoli, significa fare “eis-egesi” e non “ex-egesi” (5).

17) La verità del Messia poteva essere meglio espressa all’interno dell’Ebraismo? Sì, e un fatto lo dimostra. Nel Protoconcilio di Gerusalemme, venti anni circa dopo la morte di Cristo, gli Apostoli dovettero affrontare un grosso problema: l’identità del Cristianesimo; eppure tutto venne risolto bene, perché le categorie teologiche e il codice linguistico erano comuni; la innovativa corrente di Paolo e quella tradizionale di Pietro si completavano a vicenda, a tutto vantaggio della diffusione del Vangelo.

In origine le due Chiese, quella ex circumcisione (dal mondo ebraico) e quella ex gentibus (dal mondo pagano), coesistevano anche se non sempre pacificamente.

18) Molte Chiese locali hanno prodotto Sussidi pastorali per una migliore conoscenza dell’Ebraismo. Per restare in Italia, il 28 settembre 1989, la CEI ha stabilito che ogni anno, il 17 gennaio, si celebri la “Giornata dell’Ebraismo”, per approfondire e sviluppare il dialogo religioso ebraico-cristiano. Tale dialogo è necessario perché l’Ebraismo “non è estrinseco a noi, ma, in un certo modo, è intrinseco alla nostra stessa religione” (Giovanni Paolo II, Sinagoga di Roma, 13 aprile 1986). L’Ebraismo è stato per il nostro Occidente, e non solo, quello che il seme è per l’albero: come da quel piccolo seme vengono fuori foglie e fiori e frutti, così dalla matrice ebraica sono venuti a noi valori e sistemi che strutturano tutta la nostra vita. Sì, davvero “Tutti là siamo nati” (Sal 87,4).

c. Necessità di una catechesi nuova

19) Alla base del rapporto ebrei-cristiani c’è anche il problema di una nuova catechesi. Molto più positivo sarebbe stato questo rapporto se, presentando l’Ebraismo, i cristiani avessero usato immagini diverse. Per esempio:

-) Fondamento/Edificio

La nuova immagine di Fondamento/Edificio ha il vantaggio di eliminare ogni ambiguità e di mostrare quel valore permanente di cui parla il documento conciliare. Il Fondamento, infatti, rispetto all’Edificio non solo non è mai scaduto o sorpassato, ma sempre valido, esistendo e resistendo il secondo grazie al primo.

-) Radice/Albero

È Paolo stesso che utilizza l’immagine, quando parla dei cristiani di origine pagana come “rami di ulivo selvatico” innestati “sulla radice dell’ulivo buono” che è il popolo ebraico (Rm 11,17). Sfortunatamente questa immagine non ha avuto sviluppo, e sono state preferite quelle dualistiche di Noi/Loro, Luce/Tenebre, Spirito/Legge, Antico/ Nuovo… dichiarando la fine dell’Israele credente e la sua insignificanza.

-) Città/Cittadinanza

Anche questa è Paolo a utilizzarla: “Ricordatevi che un tempo, voi, pagani per nascita, eravate senza Cristo, esclusi dalla cittadinanza di Israele, estranei alle alleanze della Promessa. Ora invece in Cristo Gesù siete diventati i vicini” (Ef 2,11). La metafora dell’Apostolo è chiara: Israele è la Città della quale la Chiesa entra a far parte assumendone la Cittadinanza, la Città nella quale entra come ospite e siede a mensa con Abramo (Mt 8,11). Anche questa immagine, come le precedenti, veicola sensazioni positive, complementari e fraterne.

29) Il buon Girolamo, dopo avere letto che “le cose dette in ebraico non hanno la stessa forza quando sono tradotte in altre lingue” (Sir Prologo 21), si convinse della necessità dello studio dell’ebraico e lo iniziò a studiare a 30 anni! Anche la PCB dichiara che l’ebraico, il latino e il greco sono necessari altrimenti i “chierici restano nella ignoranza” (1950). Anche gli scritti nel NT, pur redatti in greco, vennero scritti da autori di cultura ebraica. Pilato fece scrivere sul cartello “Gesù di Nazaret, re dei giudei in ebraico, latino e greco” (Gv 19,19). È vero: tradurre è sempre un po’ tradire. Forse sarebbe conveniente studiare “ebraico biblico” in tutti i Seminari e Facoltà di teologia! Un buon annunciatore della Parola di Dio deve conoscere – bene – tre lingue: l’ebraico, il greco e il latino.

A cura di Franco GALEONE

francescogaleone@libero.it

NOTE NOTA 1. E. WIESEL, La notte, Giuntina, Firenze 1994; Wiesel, deportato ad Auschwitz e Buchenwald, nel 1986 premio Nobel per la pace, resta oggi una delle voci più amare e più scarne, più compromettenti e più liberanti; alternando rapsodicamente racconti e dialoghi che rievocano lo strazio della Shoàh, Wiesel f a riflettere sugli errori e orrori perpetrati durante il sonno della ragione e della religione. Ricordiamo anche le terribili testimonianze di P. Levi in Se questo è un uomo, Einaudi, Torino 1957; dello stesso autore, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino 1986. Utile sarà anche consultare: R. De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Einaudi, Torino 1961; L. Poliakov, Il nazismo e lo sterminio degli ebrei, Einaudi, Torino 1955; F. Lovsky, Sguardo teologico cristiano sull’antisemitismo, in Il regno, Documenti, 11/1984, p.365.

NOTA 2. J. B. METZ, Al di là della religione borghese, Queriniana, Brescia 1981; cfr. anche Concilium 5/1984, n. 195, p.45.

NOTA 3. Una sinossi degli scritti Adversus Yudaeos viene presentata da M. Simon in Verus Israel. Étude sur les relations entre chretiens et yuifs dans l’empire romain, Parigi 1964; cfr. anche K. H. Rengstorf – S. Von Kortzfleisch, Kirche und Sinagoge, I, Stoccarda 1968, pp.50-209.

NOTA 4. JACQUES ELLUL, cristiano della chiesa riformata di Francia, autore di Anarchia e cristianesimo, tradotto da Eleutheteria, Milano 1993. NOTA 5. L. SWIDLER, Paralleli con l’etica ebraico-cristiana, EDB, Bologna 1993.

Mattia Branco

Ho diretto, ho collaborato con periodici locali e riviste professionali. Ho condotto per nove anni uno spazio televisivo nel programma "Anja Show".

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