CHECKPOINT: è ancora questa la parola chiave che serve per capire l’importante scoperta fatta dal gruppo di ricerca del Laboratorio di immunopatologia sperimentale dell’Istituto Humanitas di Rozzano appena pubblicata su Nature. Perché i ricercatori coordinati da Alberto Mantovani hanno dimostrato che non ci sono solo quelli contro i quali sono diretti gli immunoterapici già presenti in clinica quali l‘ipilimumab (CTLA-4) e il nivolumab (PD-1), ma ne esiste almeno un altro che, potenzialmente, potrebbe avere un ruolo anche più importante, e potrebbe quindi presto diventare il bersaglio di ulteriori terapie che puntano sulla risposta immunitaria per sconfiggere il cancro.
“Abbiamo capito che una proteina chiamata IL-1R8 (ovvero il recettore numero 8 dell’interleuchina 1), presente sulle cellule del sistema immunitario chiamate Natural Killer (NK) e sui linfociti T, agisce da blocco rispetto all’azione di queste due importanti famiglie di modulatori: se si toglie il blocco, cioè  – nel nostro caso – si spegne il gene che la esprime, l’azione antitumorale tanto degli NK quanto dei linfociti T  è molto più potente”, spiega Cecilia Garlanda, principal investigator del progetto.

La scoperta è stata confermata prima in vitro e poi su modelli animali sia di tumore del fegato, sia di metastasi di tumori del colon e di sarcomi (cioè in cellule tutte neoplastiche, ma molto diverse tra di loro per origine e tipologia) e ogni volta gli animali con il gene modificato hanno contrastato molto meglio l’insorgenza del tumore; anche le cellule umane modificate, poste in coltura, si sono comportate secondo le attese. “Questo” commenta Garlanda “ci dice che in linea teorica il meccanismo potrebbe essere presente in tutti i tumori solidi, nell’uomo come negli animali”. E che possa essere così lo suggerisce anche un’altra caratteristica che rende il sistema diverso da quello su cui agiscono gli inibitori di checkpoint classici: l’effetto sui Natural Killer. “Questi ultimi” specifica la ricercatrice “intervengono spontaneamente su qualunque cellula trasformata, perché fanno parte del sistema immunitario più primitivo, quello innato, poco specifico. Per questo si può ipotizzare che una loro mobilitazione sia ancora più efficace rispetto a quella dei linfociti T, che comunque, a loro volta, vengono reclutati dal blocco della proteina, anche se sono più selettivi e appartengono al sistema immunitario più specializzato, chiamato adattativo”.

L’ampio raggio d’azione però, in medicina, non è sempre positivo: si rischia di colpire nel mucchio e avere effetti indesiderati o, in certi casi, paradossali, opposti a quelli cercati, e poiché IL-1R8 è espressa in diversi tipi cellulari, la seconda parola d’ordine è: selettività. Come si fa a inibire selettivamente IL-1R8 presente solo sugli NK o sui linfociti T in modo da sbloccarli senza fare nient’altro? La risposta è nella tecnologia, come spiega ancora Garlanda: “Oggi disponiamo di anticorpi bispecifici, che cioè vanno a interagire non con uno ma con due siti, e se ne potrebbero realizzare di selettivi per IL-1R8 e per un sito sugli NK; in alternativa, si può pensare di modificare geneticamente i linfociti T specifici, del paziente, affinché non esprimano IL-1R8 , come abbiamo fatto negli animali e come si fa nelle cosiddette CAR T“.

La ricerca di checkpoint diversi da quelli dei farmaci già entrati in clinica è molto attiva, e le proteine in studio come IL-1R8 sono almeno una decina, ma finora nessuna ha dato risultati pienamente soddisfacenti e soprattutto nessuna che appartenga al sistema immunitario innato. Per questo la scoperta dei ricercatori milanesi,

fatta in collaborazione con altri centri universitari italiani, europei e con l’istituto IRCCS Neuromed di Pozzilli potrebbe segnare un punto di svolta, e preludere all’arrivo in clinica, tra qualche anno, di un’intera nuova famiglia di inibitori di checkpoint. I test sono in corso.