UNA BATTAGLIA DI ANNIBALE DELLO SCRITTORE CASTELLANO VITTORIO RUSSO

Livio scrive che Flaminio raggiunse il lago senza aver esplorato il terreno (ad lacum, pervenisset inexplorato). Non era nelle consuetudini militari dei romani avanzare senza aver effettuato accurate perlustrazioni dei luoghi da attraversare e muovere intere legione senza prendere adeguate misure di protezione. Neanche il generale più sprovveduto che avesse affrontato per la prima volta l’avversario più mediocre avrebbe potuto tralasciare cautele così ovvie. Le tralasciò Flaminio quel giorno e fu il disastro. Ma fu anche il giorno dell’onore che lo riscattò prima di morire quando, incitando i propri uomini e ricordando loro che minore è il pericolo se minore è la paura, affrontò con ammirevole sangue freddo una morte gloriosa. Di lui non rimase che il nome per la storia e quello del suo uccisore, un gallo di nome Ducarius, per la cronaca. Tale fu, infatti, la carneficina, che fu impossibile identificare il corpo del console dopo la battaglia.

Provate a rappresentarvi con me quello che ci viene ricordato dagli storici con parole che sembrano guizzi di pensiero, impressioni appena suggerite, che spetta poi a noi ordinare dando loro continuità di immagini…

È un’alba di giugno del 217 a.C., il 24 di giugno, una nebbia spessa imperla i volti dei legionari, le loriche, gli elmi, gli scudi, i piedi nudi nelle caligae dai lacci di cuoio indurito dal fango e dall’acqua. A migliaia avanzano in chilometrica fila, a pochi metri dalle sponde invisibili del lago, lungo sentieri stretti, consumati dal passo dei contadini e dei pescatori di lucci e di anguille. A uno o due chilometri, a sinistra, si innalzano le morbide alture cortonesi al riparo delle quali e nella vegetazione Annibale ha mimetizzato i suoi in modo che appena i Romani fossero a tiro, stando a Livio, subissero alle spalle l’assalto della cavalleria e ogni altra via di scampo fosse preclusa dal lago e dai monti. Tutto è predisposto con assoluta precisione. Il Cartaginese ha accuratamente ispezionato i luoghi e ha raccolto le più minuziose informazioni sulla posizione delle legioni. Sa perfettamente di non poter affrontare in uno scontro frontale e in campo aperto due micidiali armate romane che stanno per unirsi, anche disponendo di una forza di gran lunga superiore. Ha perciò prevenuto il loro ricongiungimento incuneandosi fra esse e precorrendo la strategia militare non meno che politica del divide et impera, che sarà poi quella sulla quale Roma costruirà la sua grandezza futura. Annibale gioca d’astuzia puntando sull’orgoglio di Flaminio che, lo ha capito benissimo, è smanioso di conseguire su di lui una vittoria schiacciante per celebrare un memorabile trionfo. Precedendolo con il suo esercito lungo la sponda a nord del lago, superò verosimilmente la località di Passignano e proseguì come se volesse puntare su Perugia. In realtà, fuorviando il Romano, fece dietrofront subito dopo, forse all’altezza di Torricella, per attestarsi sulle colline dove oggi sorge Tuoro e per organizzarvi quella che è stata definita la più grande imboscata della storia.

A guardia dell’ingresso della valle e al centro delle alture sono appostati i mercenari galli, considerati carne da macello da utilizzare al primo assalto – e sui quali in un primo momento i Romani ebbero la meglio – e la cavalleria numidica. Al centro sono disposti a fittissime schiere gli Ispanici e i Libici. A est, presso l’uscita della valle, si celano infine i fiondatori delle Baleari, famosi per la loro abilità con le frombole.

L’esercito romano entra nella piana da occidente, pressappoco nel punto dove ora sorge Borghetto. Superato lo stretto passaggio, la colonna si dispiega nella pianura seguendo il percorso sinistramente noto ancora oggi come il Malpasso, per dirigere, secondo alcuni, verso l’uscita a levante, grosso modo dove è Passignano. L’attacco degli imboscati ha luogo verosimilmente nella striscia di terra sotto la località detta Sanguineto nel momento in cui la fila piega di poco a sinistra verso nord, in direzione di questa località. Solo questa deviazione giustifica l’attacco dei punici su tutti i lati. Livio scrive, infatti, che i Romani scorsero le ombre dei soli nemici che stavano davanti a loro, senza avvedersi della minaccia che incombeva sui lati. Annibale a quel punto ha già in pugno il nemico che è circondato e stretto tra le colline e il lago. Dà il segnale dell’attacco levando un braccio. Nella nebbia i luogotenenti a distanze regolari, distinguono quel drappo rosso che sventola legato al suo polso. Segue lo squillo rauco di trombe, tube, salpingi, bùccine e l’urlo agghiacciante di migliaia di gole. È un tuono che spezza il silenzio fittamente avvolto fino a quel momento nella caligine. Il fragore delle voci copre lo stridio delle spade. È un incubo che travolge i legionari scombussolati dalle urla prima ancora che dalle armi di nemici invisibili. Irrompono i Galli con le daghe scintillanti nel biancore della nebbia. Su di essi, come predisposto da Annibale, i Romani devono avere facilmente la meglio. Ma poi scatta la trappola: la valanga della cavalleria numidica aggredisce il grosso della colonna romana, la spezza, l’avvolge a tenaglia e ne fa strage. Presi alla sprovvista, impacciati dagli equipaggiamenti, i legionari non possono organizzare che una mediocre difesa. Premuti da tutte le parti, nella bruma che dirada fiocamente, sono travolti e annientati. A migliaia affogano nel lago affondando nelle bare di acciaio delle loro armature, molti si colpiscono a caso, altri si danno la morte vicendevolmente per non finire prigionieri dei Cartaginesi. Quelli che trovano una via di fuga verso l’uscita della valle, sono sterminati o fatti prigionieri subito dopo.

Non occorre molta immaginazione per capire perché le due località di Sanguineto e Malpasso portino ancora oggi quei nomi. Così come sono facili da interpretare quelli di tanti altri luoghi lì intorno: Ossaia, Sepoltaglia, Pian di Marte (o forse Pian dei martiri, riferito ai prigionieri romani che qui furono giustiziati) ecc.

Migliaia e migliaia di morti arrossano col loro sangue il fiumiciattolo Sanguineto e il lago. Tace il gracidare delle rane sommerso dai gemiti dei moribondi e dal colore inusuale delle acque in cui affondano subito corpi umani, carcasse di cavalli, segmenti di loriche, scudi ammaccati, insegne, stendardi insanguinati, intrichi di lance… Nel gemito sempre più fioco dei feriti e dei cavalli agonizzanti, il manto bianco della nebbia, sollevandosi come un vasto sipario, mostra sotto l’arco scenico di un cielo allucinato tutto il dramma dell’eccidio. Poche ore, forse tre soltanto, sono state sufficienti ai mercenari punici per sgozzare quindicimila legionari e a questi per ammazzare millecinquecento o duemila cartaginesi. Difficile dire quanti romani scamparono allo sterminio. Forse diecimila, come sostiene Livio, mentre quindicimila, secondo Polibio, sarebbero stati i prigionieri. Arduo confermare.

Dopo tanta strage a Roma nulla fu più uguale a prima. Si prese coscienza delle straordinarie capacità tattiche del Cartaginese ma ancor più dell’impiego geniale della cavalleria la cui potenzialità tattica si cominciò a temere seriamente solo da quel momento. Ma solo quando con Cornelio Scipione, il futuro Africano, Roma dispose di un pari strumento di guerra, Annibale fu sconfitto a Zama e fu la fine della seconda guerra punica.

Ricorda Tito Livio che la prima decisione assunta dal Senato dopo lo sfacelo del Trasimeno, forse per la prima volta nella storia di Roma da tempi immemorabili, fu quella di proclamare un Voto Sacro di Primavera (Ver Sacrum). Si trattava di un rito antichissimo che risaliva addirittura all’Età del ferro e che in Italia traeva origine da plurisecolari consuetudini sabine e umbre. Stando a esse, in circostanze eccezionali o per scongiurare pericoli estremi per la sicurezza della Repubblica, venivano sacrificati tutti i primogeniti nati in primavera. Il rituale umbro dell’immolazione dei bambini nel Ver Sacrum di norma era solo teorico perché, in realtà, essi venivano risparmiati e consacrati. Una volta raggiunta l’età adulta, emigravano per fondare nuove città e diventare capostipiti di nuove popolazioni. Ma di questo antica ritualità rievocheremo gli aspetti curiosi e le singolarità un’altra volta.

Anche se Livio non lo dice esplicitamente, tutto lascia pensare che dopo la disfatta del Trasimeno, il sacrificio dei bambini primogeniti ebbe verosimilmente luogo. Ma non fu la sola decisione presa. Il Senato capì che sarebbe stato difficile battere Annibale seguendo gli schemi tradizionali dello scontro frontale. La lealtà nel combattimento doveva cedere il passo all’astuzia senza esclusione di malizie e cattiverie. Bisognava ricorrere a nuovi metodi di lotta, usare le stesse tattiche del nemico, barare, ingannare, colpire a tradimento se necessario, proprio come faceva lui e fare terra bruciata intorno a lui. Non a caso perciò, come in poche altre drammatiche circostanze del passato, fu nominato un dittatore. Questi rispondeva al nome di Quinto Fabio Massimo fino a quel momento noto come il Verrucoso. Da allora in poi però fu chiamato Conctator, il Temporeggiatore. Lo scopo di Fabio era di non affrontare Annibale in uno scontro campale perché questi avrebbe sicuramente vinto ancora e forse definitivamente. Bisognava tenerlo invece sotto scacco, pungolarlo ma non ingaggiare battaglia, isolarlo impedendogli di approvvigionarsi, logorarlo insomma e affamare il suo esercito di mercenari. Una volta perduto l’entusiasmo della vittoria e mancando l’incentivo del bottino, esso si sarebbe trovato chiuso in una gabbia di delusione, sarebbe stato sconfitto psicologicamente prima che dalle armi e si sarebbe forse ammutinato come già era avvenuto in passato con Amilcare, il padre di Annibale. Fu quello che in larga misura sarebbe avvenuto, ma solo dopo la sconfitta di Canne.

Questo però è un altro capitolo della storia della seconda guerra punica di cui ci piacerà riparlare.

Mattia Branco

Ho diretto, ho collaborato con periodici locali e riviste professionali. Ho condotto per nove anni uno spazio televisivo nel programma "Anja Show".

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