Una strizzatina d’occhio…

di Vittorio Russo

Non è il caso mio. Quasi mai. Non amo le “strizzatine d’occhio”: denotano una connivenza con ciò che non si conosce, una complicità con l’incerto, un “mettiamoci insieme per convenienza”. Per me occorre trasparenza, occorrono patti chiari, prima di tutto con noi stessi.

Però! Ma è proprio vero che la strizzatina d’occhio ha sempre connotazione negativa?

A riflettere per un attimo mi sembra sia pure un modo per dire amore, un guardare intorno, un cercare complici per la condivisione di punti di vista, di desideri, di blandizie…

Scrutarsi l’un l’altro, di fronte, è solo egoismo, è uno scambio che non coinvolge gli altri. Parafrasando un magnifico accarezzatore di pensieri quale era Antoine de Saint-Exupéry, credo che esaltarsi d’amore non è guardarsi negli occhi, ma guardare nella stessa direzione. Insieme.

Tempo fa mi morì Penelope. Il triangolo murario suo preferito era la cuspide in ombra, in alto, nella piccola serra sul terrazzo di casa. Lì lei viveva e ricamava la sua tela lucente in un incessante lavorio quotidiano. Il suo era un merletto che mi lasciava d’incanto tutto le volte che indugiavo a osservarlo. A questa osservazione dedicavo talvolta lunghi tempi di riflessioni, sempre più ammirato dalla perfetta geometria delle sue trine, dagli esagoni perfetti, dalle linee sghembe di cateti coniugati con ipotenuse nell’aria nuda. Che misteri mi riusciva d’immaginare dietro la trama di quei funambolici nessi di fili! Che sfumature sottili in quei cromatismi mutevoli al variabile cadere della luce!

Io credo che l’artefice di ricami di tanto prodigio, Penelope – così avevo chiamato la ragnetta che in quel triangolo murario viveva – non fosse solo e semplicemente un aracnide con otto zampe, due appendici boccali e il capo unito al torace. Non l’ho mai vista, sia chiaro, ma so che non era come tutte le altre ragnette che di mestiere tessono tele per catturare insetti. Lei no. Penelope era un’artista. Le sue trame non erano esche per cibo. Lei tesseva per il piacere raffinato di fare arte, per il vanesio piacere di stupire, merlettava perché io contemplassi la capacità illusoria delle complessità eleganti di cui era capace. Penelope tramava con l’amore dell’artista che deve sbalordire chi osserva. Filava tele, trasparenti fin quasi all’invisibilità, di fili che erano materia quasi ideale. Li coniugava con nodi colti, gordiani, che nessuna sapienza di insetti-vittime avrebbe mai saputo sciogliere. Suonavano addirittura quei fili perché di tale sostanza erano fatti che sotto una carezza di luce la loro vibrazione era suono e canto. Tremavano di armonia. Bastava solo amplificarne l’ascolto per percepirla quell’armonia e goderne. Penelope, ragnetta nera che non ho mai visto, era per me bianca ed elegante, avvolta nel serico himation della sposa di Ulisse intenta a ricamare il sudario per le spoglie di Laerte.

Che arte “sovrumana” quella della mia Penelope! Tutta dedicata all’ammirazione di chi sapeva goderne. Mi compiacevo di aver complice un’amica che per sensibilità sapeva ammirare l’eterno “capolavorare” della mia ragnetta. Mi bastava una “strizzatina d’occhio” e un ammiccamento. In silenzio ci accostavamo alla tela che era il supporto e il tema di quell’opera d’arte e sbalordivamo.

Penelope non c’è più da tempo, da un Natale fa. Mi ha lasciato l’eredità preziosa del suo ricamo nella cuspide tridimensionale all’ombra, in alto, nella piccola serra sul terrazzo. È lì immobile come un disegno pietrificato dal tempo. I fili ora sono scuri, neri di lutto e di inutilità. Di mattina li avvolge una sorta di pruina, come il velo sottile che copre certi frutti: una trama di umidore. Forse così piangono le ragnette. Sicuramente piange così Penelope.

Penelope non ri-nasce a Natale. se non nel mio ricordo. E manca pure la mia amica che il suo ricordo desterebbe sola con una… strizzatina d’occhio.

Mattia Branco

Ho diretto, ho collaborato con periodici locali e riviste professionali. Ho condotto per nove anni uno spazio televisivo nel programma "Anja Show".

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