CORONAVIRUS E DINTORNI – A SPASSO PER LA VIA LATTEA

 

 di Vittorio Russo

 

Camminiamo senza peso lungo giorni con decorsi variabili. Mai abbiamo vissuto tempi così. Questa che il coronavirus ci impone, se non la vivi come penitenza imposta da un dio inappagato, può essere sorgente di un’incomparabile esperienza. E, in seguito, potrà perfino rappresentare un momento di crescita per i mutamenti che avrà provocato. Soprattutto – su questo non si possono nutrire dubbi – avrà dimostrato quanto malleabile sia la materia di cui siamo fatti. È possibile accorgersene analizzando i comportamenti deformati, le considerazioni su cui indugiamo, le osservazioni di ciò che prima cadeva sotto lo sguardo con profili e colori alterati.

Chissà quanti di noi di sera avranno sollevato lo sguardo al cielo. Cosa fatta con scarsa frequenza prima, in fretta. Molti per una muta preghiera, ad acquietare uno spirito confuso o per bisogno di un’astratta protezione da ciò che ci domina dai mondi invisibile del sacro. Alcuni altri si saranno lasciati prendere dal fascino, non meno coinvolgente, del silenzio degli spazi, delle distanze, del firmamento tempestoso di buio. Osservare il cielo stellato in una notte di atmosfera pura è sempre un’esperienza che toglie il respiro. Scorrere i grani di rosario in questo soffitto lontano, con lo sguardo che vorrebbe avere la potenza del telescopio di Palomar, percorrere con la punta degli occhi la scia opalescente della via Lattea, è un prolungamento del sé in un’esplorazione inesauribile. Puntare i corpi celesti che respirano di luce variabile a distanze che gli astronomi non sanno più in che altro modo calcolare, è un navigare per mari dove finalmente gli orizzonti si sciolgono nel nulla eterno. Soffermarsi su ogni tenue bagliore, su ogni inapprezzabile brillamento è come dialogare con vite che nulla hanno di astratto.

Quanto vividi si fanno quegli scintillii, quei palpiti, quasi battiti di sangue, al punto che smetti di sentirli come gli astri di cui hai consumato gli occhi con le osservazioni al sestante! Butti giù nel cestino del superfluo i sudati logaritmi di una volta, i coseni dalle morbide forme, le tangenti affilate, le coordinate celesti. Quanto può contribuire a farti sognare un’ora di osservazione con un salto di milioni di anni luce fra Shaula e Altair, lungo percorsi fra rotte cosmiche che sono più vagheggiamenti che tracce deformate dalla professione. È bello naufragare in questo mare astrale, inabissarsi con la mente nella morbidezza del letargo in cui dorme l’eternità. Lasciarsi andare, tanto non succede nulla: non bruci, non ti congeli. Tutto è fatto di pensiero e astrazione: è proprio un eccellente trastullo per la mente libera di correre.

Di spazio ce n’è tanto fra te a quel puntino luminoso laggiù, lontano lontano, che se vuoi misurarlo hai bisogno di strumenti che la tua mente non riesce a concepire. Grande come mille soli. Grande di una grandezza pari alla distanza fra la Terra e il Sole. Capita di sognare anche se non sei allenato. Capita se sei capace di farti accarezzare lo sguardo dall’onda luminosa della Galassia, la nostra, la cento-miliardesima galassia dell’universo. Capita, per esempio, se ti fai prendere per mano dal racconto mitico…

Ti viene da sorridere se consideri con quali occhi nell’infanzia dell’umanità fossero state lette la pagine del cielo. Nell’India pre-aria, per esempio, quando Surhabi, lasciò nello spazio cosmico una striscia infinita di latte divenendo la madre benefica dell’umanità, all’origine del culto delle vacche. E che sorprendenti analogie si possono cogliere con il mito di Eracle, nato da una delle eterne scappatelle di Zeus, fecondatore della florida Alcmena. Da essa nacque Eracle, subito posto al seno di Era addormentata. Era, la moglie un po’ isterica di Zeus che, al risveglio, contrariata da quella bocca estranea che le succhiava il petto, la staccò da sé bruscamente così che il latte sprizzato dalle mammelle allagò il cielo notturno e diede vita alla Via Lattea delle nostre notti stellate.

E poi i miti di Hathor e di Nut della mitologia egizia, il “fiume di luce” degli ebrei, fino ad arrivare ai fantasiosi Kung, che vivono nel deserto del Kalahari, in Africa, per i quali quello sciame d’argento diventa “la spina dorsale della notte”. Quanti racconti affiorano alla mente osservando il cielo senza fretta. Quante similitudini in questi miti lontani, quasi che i popoli dell’antichità si fossero incontrati tutti una sera d’inverno, intorno al focolare, per raccontarsi le esperienza fatte dagli occhi di ciascuno scorrendo la volta celeste.

Dovremmo imparare a leggere con pazienza nelle pagine del firmamento. Vi sapremmo scoprire poesie di inesauribili bellezza, canti magici che raccontano la storia del tempo e l’inverosimiglianza della pochezza della nostra specie umana confrontata all’impietosa dimensione dello spazio interminato. Vaglieremmo in maniera più acconcia questa nostra brulicante Terra, minuscola e vuota come cruna di ago, tormentata dalle invidie degli insetti che la popolano, ora anche assediati da un minuscolo mostro che li morde ai polmoni. Muori dal ridere se la osservi per un attimo dall’esterno. Lo vedi questo granello di polvere scaraventato nello spazio come un sassolino nel mare da un Polifemo accecato, questa Terra, quantità di materia inapprezzabile, che vive del calore di un piccolo sole a otto minuti di luce da sé. E che vuoi che sia la distanza percorsa in otto minuti dalla luce che viaggia a trecentomila chilometri al secondo, rispetto a quella che ci viene da stelle così lontane da aver bisogno di miliardi di anni luce per misurarla.

Perfino le parole finiscono per travolgerti quando ti lasci incantare da quello che non capisci, da quello che desidereresti capire, quando ti soffermi sul senso che esse racchiudono come un segreto. Del resto, che cos’è il desiderare se non sognare quello che non hai? Trovare quello che è oltre la dimensione del reale, cercarlo oltre le stelle (sidera). Così almeno pensava Tommaseo credendo di poter spiegare così l’etimologia di “desiderio”. Come Astolfo che sulla Luna, oltre gli astri, trovava la saggezza di Orlando e “i versi che in laude del signor si fanno”.

Quante considerazioni sono possibili solo osservando la Via Lattea, capaci perfino di stimolarci a biasimare la follia dell’uomo che getta via il tempo inseguendo vane illusioni.

Mattia Branco

Ho diretto, ho collaborato con periodici locali e riviste professionali. Ho condotto per nove anni uno spazio televisivo nel programma "Anja Show".

Potrebbero interessarti anche...

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *