PERCHÉ NON DOBBIAMO SPERARE!

di Vittorio Russo

Si è potuto dimostrare che il vocabolario dei Greci disponeva di un lessico sterminato. Con tanta ricchezza terminologica il pensiero spaziava dentro orizzonti illimitati di percezioni, di intuizioni, di espressioni, di concezioni e di interpretazioni del mondo che facevano di quel popolo gli investigatori di ogni ramo del sapere. Questo in larga misura spiega pure perché hanno eccelso in ogni arte e in ogni conoscenza, nessuna esclusa. Avevano fra l’altro concepito la natura come il luogo del divenire, il luogo del continuo nascere. Natura equivale a nascitura, ossia ciò che è in continuo divenire. Questo è pure il senso che a “natura” attribuiva Lucrezio nel De rerum natura.

Vincolati come erano alla dimensione inafferrabile e imprevedibile della natura, i Greci ritenevano, dunque, che l’uomo non potesse piegarla con la tecnica. Lo ricorda Eschilo quando mette sulla bocca del suo Prometeo incatenato il grido di disperazione dell’inanità dell’uomo incapace di domarla. Ce ne accorgiamo in tempi di coronavirus. L’uomo si difende e vince pure, ma sempre pagando un tributo terrificante in termini di morte e di dolore. Quando avremo debellato il male che ci affligge oggi, dovremo già essere pronti per affrontare il prossimo perché, inesorabile, la natura già lo cova. Questa è la sua regola, la sola dove il divenire è la chiave costante.

Detto questo si capisce già perché per i Greci il verbo sperare non aveva praticamente senso. Sapevano che la vita è lotta e ha regole ineluttabili che l’uomo non può modificare. Sapevano pure che l’uomo è il mortale. Thnetos e brotos, dicevano, ossia mortale, in contrapposizione con gli dèi che sono immortali. Il cristianesimo ha stravolto questa prospettiva e con un percorso di pensiero tortuoso ci ha porto il conforto della SPERANZA con la fede nell’immortalità. La morte, quindi, non è più il termine ultimo del nostro esistere, ma la porta della vita eterna.

Pagine straordinarie sono state scritte da Umberto Galimberti su questo tema. Speranza è purtroppo però solo sostanza di sogni. Sperare è verbo della passività, è abdicazione, è il rimettersi a chi o a qualcosa che agisce per noi e dovrebbe risolvere i nostri drammi esistenziali. Inesorabilmente poi, sperare diventa il verbo della disperazione quando le attese sono deluse.

Imparare a mettere da parte le speranze consente di riscoprire la volontà di essere. È questa volontà che dà senso alla vita, ci enuclea dalla genericità e ci dà un’identità. Solo mettendo da parte la speranza cancelliamo le incertezze. Non conta il risultato, conta la decisione che a esso ci permette di giungere. Perché, se in natura tutto avviene secondo la logica deterministica della causa e dell’effetto, non è possibile pervenire alla causa con la speranza, con l’augurio che il miracolo possa modificare l’evento, con l’auspicio che tutto possa andar bene senza la nostra azione. Non possiamo aver stima per quelli che hanno il compito di fare e cominciano dicendo: Speriamo che… Significa: “Io rinuncio e mi rimetto al caso.” Ancora peggio i medici, che dobbiamo disistimare quando iniziano col dire: Speriamo che… È la disperazione assicurata, il fallimento della ragione. Il medico è tale se cerca la formula, se trova l’antidoto, se cura. Non se prega e spera che per alchimia possa aver luogo quella reazione che invece avviene solo per chimica.

La speranza, ahimè, non appaga che sogni e non nutre che incertezze. Non basta quando la realtà ferocemente incombe e si ha bisogno di indagine, di lumi e conoscenza per giungere alla causa. Tuttavia, è proprio quando più forte si fa il bisogno di sapere che la speranza occupa lo spazio che dovrebbe invece appartenere alla riflessione. È allora che la speranza diventa un crampo della ragione. Il bisogno di certezze non viene dalla speranza ma dall’impegno severo e silenzioso del ricercatore. È la scienza che trova il vaccino capace di curare il male che uccide, non la preghiera.

Quando giungono i tempi bui della sofferenza occorre spezzare le pastoie dei sogni. È allora più che mai che abbiamo bisogno di tutta la determinazione delle nostre nature. Rinunciare a decidere equivale a soggiacere al sconforto. È un ignavo rimettersi alla clemenza del fato. Non può star bene a nessuno. Lottare è vivere. Cercare è consapevolezza. Che siano perciò l’impegno e l’ottimismo la lucida  scelta di vita!

Mattia Branco

Ho diretto, ho collaborato con periodici locali e riviste professionali. Ho condotto per nove anni uno spazio televisivo nel programma "Anja Show".

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