Tutti quei morti in fila, in geometrie terribili di linee e di colori uniformi, contraddistinti da un’età approssimativa, dal sesso e da un NUMERO.

The body of a drowned immigrant with the boat that originated in Libya (Background) carrying approximately 850 refugees sits on a sandbar 35 km north of the Tunisian islands of Kerkennah. The Tunisian Coast Guard rescued 593 of the mainly West African immigrants on Wednesday but about 250 are presumed to have drowned. The bodies of at least 20 immigrants who drowned are floating around the boat and lying on the sea floor as of the afternoon of 04 June 2011.(Photo: Samuel Aranda / Corbis)

di Vittorio Russo

Tutti quei morti in fila, in geometrie terribili di linee e di colori uniformi, contraddistinti da un’età approssimativa, dal sesso e da un NUMERO.

Pensate, un numero che diventa l’identità di un’esistenza che non c’è più. Un terribile, spoglio numero, senza spirito, senza corrispondenza con la dimensione dell’essere. Naufraghi morti senza nome. Quale ignominia maggiore di questa! Solo nei momenti delle peggiori catastrofi della storia i suoi protagonisti più truci sono riusciti a fare tanto!

Il primo segno della civiltà umana è il nome. È il ponte levatoio verso la vita. Senza un nome non esistiamo, non apparteniamo a nulla, siamo quantità neutra, inidentificata. Il nome è fondamentale al punto da racchiudere in sé il destino di chi lo porta. “Nomen omen” dicevano i Latini, “nel nome il proprio destino”, anche se non è sempre vero.

Senza un nome sulle loro bare, i morti di quel naufragio sono morti due volte. Non esistono né per la storia della vita né per il mito dell’oltretomba. Quei morti sono niente.

Che allora sulle loro casse se ne scriva uno. Un nome qualsiasi. Non importa se ebraico, cristiano, islamico, copto, un nome amarico o saheliano: un nome che sia la testimonianza del passaggio di un essere umano sulla strada della vita. Che un nome almeno richiami alla nostra sensibilità la dignità di un essere che non c’è più. Ci sia un nome a ricordare la voce dolorosa di un morituro che implora aiuto. Una piccola voce dal suono scheggiato, forte appena come un sospiro prima dell’ultimo. Mentre nella notte intorno il mare urla e cancella la voce nel frastuono dell’onda.

Diamo un nome a chi per vivere senza morire ogni giorno nella sua terra devastata ha scelto il percorso più difficile. Rispettiamoli questo morti senza volto. Con una parola che diventa sacra facendosi segno di riconoscimento. Onoriamo francescanamente la loro vita sacrificata al delirio di una politica senza orizzonti di cultura. L’identità che restituiremo a queste ombre darà forse un po’ di senso alla nostra sovrastimata civiltà.

Mattia Branco

Ho diretto, ho collaborato con periodici locali e riviste professionali. Ho condotto per nove anni uno spazio televisivo nel programma "Anja Show".

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