LA STANZA DELLE ROSE

E’ un racconto forse lungo, ma vi assicuro che vale la pena di leggerlo.


di Vittorio Russo



Dopo aver letto due romanzi, fiori all’occhiello della cultura letteraria del nostro tempo, “I Leoni di Sicilia” e “L’inverno dei Leoni”, mi è venuto naturale immaginare, in un dialogo ideale, i conflitti e le sconfitte degli ultimi protagonisti della saga dei Florio.

La Stanza delle Rose è una mia riflessione, un frammento d’anima, ispirato dalla lunga e appassionante lettura di molte opere dedicate a questa straordinaria storia familiare. Ma soprattutto, lo confesso con gratitudine, dal respiro potente e struggente dei due capolavori di Stefania Auci, che hanno dato vita a un evento letterario raro in Italia: raccontare una vicenda che ha venduto centinaia di migliaia di copie, conquistando i cuori dei lettori. Al confronto, i miei libri, se fortunati, hanno viaggiato su numeri ben più esili, a centinaia di copie.



La voce dei Florio, il loro silenzio, le loro ombre, non mi hanno lasciato.
Questo breve testo non pretende di aggiungere nulla a quell’opera così intensa e compiuta. È solo un gesto d’omaggio, una variazione sul tema, che devo a un’autrice che ammiro. E’ una scena immaginaria, forse accaduta, forse solo sognata, in cui le solitudini di Ignazio Florio junior e di Donna Franca, sua moglie, si incontrano un’ultima volta, in un luogo sospeso fra il ricordo e il rimpianto…

La Stanza delle Rose

Alcune storie non finiscono. Restano sospese, come profumo nella seta.
I Florio venivano dalla terra dura di Calabria, con la fame negli occhi e il futuro nelle mani. A Palermo divennero aromatari (come si diceva allora), mercanti, armatori, editori, insomma, padroni di un impero. Ma la loro ricchezza era una veste cucita sopra una memoria di miseria che, agli occhi dell’aristocrazia siciliana, odorava di sudore più che di lignaggio.


“Facchini,” li chiamavano, o “Canazzi ’i mannara” (cagnacci di mandria).
Eppure furono loro a portare nuova luce nei palazzi ingrigiti da decadenze aristocratiche, titani fra casate esangui che avevano dissipato il sangue e le ricchezze in matrimoni consanguinei e in una nobiltà incapace di rinascere.
Orgogliosi i Florio, caparbi, fieri di un nome che sentivano destinato alla gloria. La loro fame restava, invisibile, tenace. Eppure, precedeva di non molto una fama imperitura.

Ignazio Florio junior, l’ultimo della dinastia, il genio senza orizzonti, nacque nel velluto, tra oro e debolezze. Figlio di un nome troppo grande, passò la vita a rincorrere ciò che non sapeva trattenere.
Sposò Donna Franca (Franca Jacona della Motta di San Giuliano), donna d’arte e di grazia, regina ammirata e sola. Perché il cuore di Ignazio guardava altrove, verso la luce inquieta di Lina Cavalieri: la più bella, la più irraggiungibile, eterea ed etèra.
Fra questi destini si tessé una trama di amori feriti e assenze mai colmate.
E ora, in questa Stanza delle Rose, ciò che non fu detto cerca ancora la sua voce. Cercop d’immaginarla…

Villa Igiea dorme, posata sulla collina come un’arpa muta. È inverno. Il vento ha scompigliato le palme e l’odore del mare che sa di ruggine.
In una stanza velata di broccati e polvere profumata, Donna Franca siede, immobile, perfetta come una creatura delle pitture di John William Godward.


Davanti a lei, un vaso d’argento. Dentro, rose disfatte, inclinate come teste piegate da un addio.
Il tempo non parla. Ma si sente. Un passo lieve interrompe il silenzio.
È Ignazio. Entrato senza annunciare, come chi torna in un luogo che teme di non ritrovare più. Per un momento resta sulla soglia. Poi si avvicina.
«Ti attendevo,» sussurra appena Franca, senza voltarsi.
La sua voce è calma, consapevole. La voce di chi ha imparato a non morire per ciò che non può cambiare.
Ignazio si ferma a pochi passi. I suoi occhi scorrono sulle rose disfatte.
«Non cerco perdono,» dice piano. «Ma me stesso. Se ancora esisto tra queste mura.»
Franca si volta. Nei suoi occhi c’è il mare visto da una finestra troppo piccola.
Non c’è rancore. Solo la consapevolezza delle grandi donne, come Eleonora d’Aquitania, come Maria Teresa d’Austria, che hanno patito la solitudine e l’abbandono, strette agli sposi come unghie alla carne, senza smettere di essere regine.
«Parla,» dice. «Non per me. Per te.»
Ignazio china lo sguardo.
«Ho tradito la mia storia, Franca. Quella di mio padre, di mio zio, di quegli uomini che venivano dalla povertà con il fuoco negli occhi e la brace nel cervello. Io sono cresciuto tra il ermellino e cristalli. Ma ho avuto il cuore fragile.»

Un silenzio. Poi la voce si spezza:
«Lina… Lina era il fuoco che non si lascia contenere. La passione che brucia la mente, il cuore, la ragione. Un capriccio? Forse. Una follia. Ma fu come essere posseduto da un sogno feroce.»
Si ferma. Cerca gli occhi di Franca.
«E tu… tu eri il mio nome scritto in oro. La grazia. Il dovere. L’amore che avrei dovuto proteggere. E non l’ho fatto.»

Franca ascolta. Nei suoi occhi, una dolcezza antica.
«No, Ignazio. Non hai fallito in me. Hai fallito in te stesso. Come accade agli uomini che portano un’eredità più grande di loro.»
Pausa. Le dita sfiorano il calice che ha dinanzi.
«Io ho compreso, a lungo. Non ho mai odiato. Non ti ho mai disprezzato. Come fanno le regine quando il dolore è troppo grande per essere detto.»

Ignazio chiude gli occhi.
«Ti ho persa. E ho perso me stesso. Non per il denaro. Non per le sconfitte. Per ciò che non ho saputo dire. Per le parole che non ho avuto il coraggio di offrirti.»
Franca si alza. Va a prendere due calici. Versa il marsala scuro, quello nobile della Casa, liquoroso, come sangue rappreso nella memoria.
«Beviamo,» dice.
«A noi. A ciò che abbiamo portato. All’assenza. Alla bellezza che non ci ha salvati.»
I calici si toccano. Il suono è lieve, come un ultimo sospiro.
Poi Franca parla ancora, sottovoce:
«E ora vai, Ignazio. Porta con te ciò che resta. Io resterò qui, tra queste rose disfatte. Ma senza più sconfitta nei miei occhi. Solo chiarezza.»
Ignazio china il capo.
Vorrebbe dire parole e altre ancora. Ma ne dice una sola:
«Grazie.»
Si volta. Esce. La porta si chiude piano.
Franca resta.
Nel silenzio, nelle rose, nella memoria.
E mentre il mare sospira oltre le finestre, una luce sottile attraversa i suoi occhi.

Forse sarebbe bello che il mondo dei Florio non restasse solo memoria di pagine o di storia, alba e tramonto di un’epopea, ma coscienza viva del nostro passato non lontano. Una gloria del Sud, un orgoglio della nazione.
Perché uomini così, dalla grandezza delle origini alla rovina precipitosa, persone capaci di creare, di osare, di cadere e risorgere, di creare e distrugghere, non sono mai troppe in Italia dove pure abbondano. E il loro esempio, fatto di tenacia, visione splendore e sconfitta, resta un tassello ineludibile di quel grande mosaico che chiamiamo civiltà.

vr – 11.06.25

Mattia Branco

Ho diretto, ho collaborato con periodici locali e riviste professionali. Ho condotto per nove anni uno spazio televisivo nel programma "Anja Show".

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