Avete mai sentito dire: ET IN ARCADIA EGO?
di Vittorio Russo

Ecco, è il titolo di un dipinto celebre: l’enigma pastorale del pittore Nicolas Poussin, tra classicismo, ombre e spionaggio letterario
Mi sono di recente trovato a chiacchierare con un amico, di Nicolas Poussin, da lui evocato, con aria tra l’erudito e il cospiratore, per le suggestioni che il quadro di questo pittore (ET IN ARCADIA EGO) avrebbe suscitato in autori come Dan Brown, mago di certi incantesimi editoriali in bilico tra codice segreto e crociata improbabile. Ricordate “Il Codice da Vinci”, “Angeli e Demoni”? Lavori fortunati che hanno venduto milioni di copie in tutto il mondo.

Bene, il mio amico parlava del dipinto come se fosse stato una mappa nascosta, un frammento di un vangelo perduto, o peggio: un oggetto sacro per appassionati del poliziesco con ambizioni filologiche. Le sue curiosità sono divenute le mie, come spesso mi accade. E così, da buon viaggiatore (anche della mente), ho deciso di ripercorrere il sentiero che porta in Arcadia, con la speranza, non certo di trovarvi il Graal, ma qualche traccia di bellezza e memoria.
Chi era, intanto, Nicolas Poussin? Un francese, certo, ma per puro accidente di nascita. L’anima sua era romana, e l’anatomia, se così si può dire, classicista. Pittore-filosofo, amante dei miti, lettore di Ovidio e Plutarco, aveva il temperamento di un antico stoico trapiantato per sbaglio in un’epoca troppo rumorosa e distratta. Scappò per tempo dai boschi della Normandia alla ricerca delle biblioteche e delle rovine di Roma, che non abbandonò più. Roma era per lui ben più di una città: era il cuore perenne e vivo dell’antichità, il grande archivio di un mondo perduto, il luogo dove il passato dà senso al concetto di immortalità.

Nella Città Eterna, Poussin visse da eremita illuminato: poche visite, nessuna concessione alla moda, tante letture. Si racconta che dipingesse a porte chiuse, con la moglie incaricata di scoraggiare i curiosi. Insomma, un monaco laico del colore, il cui vangelo erano le proporzioni, l’armonia e la malinconia pensosa dei miti.
E veniamo al quadro. Il più famoso, il più enigmatico, il più citato anche da chi non saprebbe distinguere Raffaello da Raffaella Carrà: “Et in Arcadia ego”. Il titolo è latino, come conviene alle cose serie, e reca con sé un senso di mistero già nella sua sintassi. “Anch’io sono in Arcadia.” Ma che significa? chi parla? la Morte? un defunto? O lo spettatore stesso, che contempla l’opera e si scopre passeggero in un paesaggio dove perfino la felicità è un’illusione con una scadenza?
Per capire, bisogna sapere cos’è quest’Arcadia. Nell’antichità ellenica, era una regione aspra e selvaggia del Peloponneso, ma per poeti come Virgilio, Teocrito, Ovidio, divenne il regno immacolato dei pastori e delle ninfe, dell’innocenza e del canto. Una “terra di mezzo”, come direbbero gli autori di “fantasy”, un luogo tra Natura e Divinità, spazio di quiete agreste, di amore senza peccato e di esistenze senza guerre.

Nel Rinascimento Arcadia divenne l’ideale perduto, la nostalgia culturale per un tempo semplice, limpido, mitico. Insomma, l’Arcadia sì, è vero era una regione della Grecia con i suoi miti e le sue storie, ma in realtà, quella della cultura non è mai esistita. Tutti, però, l’hanno cercata. Poussin compreso. E nel suo quadro, quello custodito al Louvre, che è il secondo che dipinse sul tema, i pastori non sono contadini, ma filosofi. Indagano un’iscrizione su una tomba che giace, sobria e silenziosa, nel paesaggio sereno. Nessun urlo, nessun dolore teatrale. Solo sguardi pensosi, gesti misurati, e una donna enigmatica che assiste come una presenza fuori dal tempo: musa? memoria? destino?
Là dove ci si aspetterebbe di vedere un teschio, c’è invece solo una scritta. Là dove ci si attendeva un memento crudo, Poussin dipinge il pensiero. E quel dito che tocca le lettere incise sulla pietra, come ha scritto Panofsky, è forse il primo gesto dell’arte, l’origine della pittura, il desiderio eterno di fermare l’ombra. Ma le ombre, si sa, sono irrequiete. E così, da secoli, quel dipinto è stato usato come trampolino per voli pindarici, spesso più misterici che misteriosi. Dall’Ottocento in poi, e specialmente nel Novecento, “Et in Arcadia ego” è diventato un talismano per esoteristi e romanzieri: chi cerca il Graal, chi indaga i Templari, chi riscrive la storia della Maddalena, tutti sembrano passare da lì. Poussin, il pittore del silenzio, è finito al centro di romanzi dove si spara in biblioteca e si medita sotto malinconiche lune.
Eppure, c’è un’ironia sottile in tutto questo. Poussin, il più austero dei pittori francesi si ritrova oggi ad essere il più citato nei gialli. Lui che fuggiva dai salotti, è diventato un’icona pop del mistero. Ma forse, sotto sotto, ne sarebbe anche divertito. Perché, in fondo, anche nel più puro dei paesaggi, anche nella più alta delle idee di un artista, c’è sempre una tomba. E un’epigrafe da leggere. E un’ombra da seguire.
Intanto, fatemi pensare che Poussin, il romano d’adozione, il cantore dei miti e della memoria, sorrida, sornione e lucido, da qualche parte, sotto un cielo classico che non teme il tempo.
vr – 15.