Cancello ed Arnone: “Letteratitudini” incontro del 16 Novembre 2013

 

 di Tilde Maisto

Tilde maistoE’ iniziato alla grande il nuovo anno culturale degli “amici/amanti della letteratura”; infatti sabato 16 Novembre u.s. si sono incontrati, presso l’abitazione della fondatrice del gruppo, tutti i  già collaudati soci fondatori, a cui si sono felicemente aggiunte delle new entry.

La serata si è svolta in modo estremamente conviviale, ma con la mente rapita dal video di Benigni che ci ha deliziato con la recitazione del V Canto dell’Inferno della Divina Commedia, con il tenero e sfortunato amore di Paolo e Francesca: …Amor, ch’a nullo amato amar perdona, mi prese del costui piacer sì forte, che, come vedi, ancor non m’abbandona. Amor condusse noi ad una morte: Caina attende chi a vita ci spense…” .

E’ nel V° canto dell’Inferno, comunemente conosciuto come il canto di Paolo e Francesca, il canto dei lussuriosi, i peccatori carnali che la” ragion sommettono al talento”, puniti da “la bufera infernal che mai non resta”, continuamente travolti da una furiosa bufera che non si ferma mai, simbolo ed insieme rappresentazione di quella bufera dei sensi alla quale soggiacquero in vita, che Dante affronta un motivo diffuso nella letteratura francese e italiana del tempo: amore e morte.

“E come gli stornei ne portan l’ali… e come i gru cantando lor lai…” Tra le anime dei lussuriosi, che in vita si lasciarono dominare dalla cieca passione d’amore, suddivisi in due schiere, a seconda che la loro passione fu bassa e bestiale o ardente e fatale, amanti infelici così cari all’immaginazione medievale, come Semiramide, Didone, Cleopatra, Elena, Achille, Paride e Tristano, Dante ne scorge due che vanno più leggere delle altre in balia del vento, simili a colombe che, guidate dal desiderio, volano verso il nido: sono le anime di Paolo Malatesta e di Francesca da Rimini.

Tra i due giovani, come sappiamo, nacque l’amore che ebbe il tragico epilogo superbamente immortalato nella Divina Commedia da Dante, che, idealizzando la storia, collocò le anime dei due amanti fra coloro che peccarono non per brutale sensualità, ma per una violenta passione che non intaccò la nobiltà dei loro animi.

E’ Francesca a parlare a Dante, a narrargli di sé, della sua patria e, dopo la rapida rievocazione del suo passato, arriva subito all’evento fondamentale della sua vita, l’Amore, idealizzato come una divinità, secondo le concezioni della letteratura cortese, medievale, dello stilnovismo e dello stesso Dante. Racconta di come Paolo s’innamorasse di lei ed ella di Paolo, mentre accanto a lei il suo compagno prima è silenzioso e poi piange, spiega di come il sentimento fosse inizialmente innocente e come si rivelò, “… Galeotto fu il libro e chi lo scrisse…”. Fu così che tra lei e Paolo si palesò l’amore: leggevano, un giorno, per diletto, una storia d’amore, la storia di Lancillotto del Lago, leggevano le pagine relative al nascente sentimento tra Lancillotto e Ginevra, moglie di re Artù, di quell’amore puro, celato a lungo, fino ad essere svelato dal bacio dato dalla regina al cavaliere.

Tanti punti della storia erano allusivi alla loro vicenda personale e, anche se gli occhi erano spinti a guadarsi, pervasi dal timore di tradirsi si evitavano. Avevano lottato finchè “solo un punto fu quel che ci vinse: …Amor, ch’al cor gentile ratto s’apprende…” inizia così il dramma: l’amore, inizialmente innocente, sgorgò rapidamente tra loro. “ …Prese costui della bella persona…” amore della mia bella persona prese costui, perché è l’amore che prende in quanto l’atto non dipende, nel suo primo destarsi, dalla volontà dell’uomo, ma scaturisce da una legge naturale. “…Che mi fu tolta; e il modo ancor m’offende…” che fu violentemente separata dallo spirito e il modo in cui ciò avvenne ancora mi danneggia, perché sono stata uccisa nella colpa, impedita a pentirmene. “…Amor, che a nullo amato amar perdona…”. L’ amore non perdona, non esonera alcuno che sia amato dal riamare, chi è amato deve riamare; sentenza universale in cui l’amore si afferma come fatale, all’amore si deve rispondere con l’amore. “…Mi prese di costui piacer sì forte, che come vedi ancor non m’abbandona…”: Mi prese così fortemente dell’amabilità di costui che, come vedi, ancora gli sono unita, e in me non è venuto meno l’amore per lui. “…Amor condusse noi ad una morte…” Amore, passando i limiti, divenne peccaminoso e ci condusse a morte insieme. “…Caina attende chi vita ci spense…” scenderà tra i traditori consanguinei chi ordì l’agguato.

Il poeta, pietoso verso gli sventurati amanti, e verso l’umana fragilità in genere, si sente come vinto a se stesso, come se fosse per morire, perché le forze e i sensi lo abbandonano.

Dante concepisce Francesca come una donna viva e vera, non una creatura idealizzata o angelicata come Beatrice, ma donna vera, nobile e gentile, priva di qualità volgari, presa da un ardente desiderio, avvinta dalla passione, nel cui animo alberga un solo sentimento: l’amore, onnipotente e fatale, che s’impadronisce di lei con tanta veemenza da non abbandonarla nemmeno dopo la morte.

Dalla bocca di Francesca, che non è depravata dalla passione, ma conserva inviolate la gentilezza, la nobiltà e la delicatezza dei sentimenti, sembra che l’unica parola che possa uscire è “amor”, ripetuta tre volte: amore che subito infiamma gli animi gentili, amore come destino, che vuole che chi è amato non può a sua volta non riamare, e amore che conduce a distruzione e che unisce per la vita e per la morte.

E’ inutile dire che l’argomento ha coinvolto tutti i partecipanti che sono intervenuti con commenti e pertinenti precisazioni al riguardo, rendendo la serata interessantissima, ma sempre piacevole e conviviale.

Poi per l’incontro di Dicembre si è stabilito di continuare a trattare qualche passo della Divina Commedia affidandosi nuovamente ad un video del grande Benigni che introdurrà il XXVI Canto dell’Inferno in cui si tratta degli orditori di frode ossia condottieri e politici che non agirono con le armi e con il coraggio personale ma con l’acutezza spregiudicata dell’ingegno. (vedi anche Ulisse). Qui, Dante fa una riflessione sull’ingegno e sul suo utilizzo: l’ingegno è un dono di Dio, ma per il desiderio di conoscenza può portare alla perdizione, se non è guidato dalla virtù cristiana.

 

Matilde Maisto

 

Mattia Branco

Ho diretto, ho collaborato con periodici locali e riviste professionali. Ho condotto per nove anni uno spazio televisivo nel programma "Anja Show".

Potrebbero interessarti anche...