Gli esami di stato.Ovvero la carneficina delle illusioni.

di Vittorio Russo
Ah, i miei esami di stato… tante primavere fa! Parecchie lune piene, abbastanza da far sbadigliare un calendario. Ma quel momento, dolce e feroce come il primo bacio rubato dietro un cespuglio, brucia ancora nelle vene come una spezia che non smette di pizzicare la memoria. C’era un’ansia viva, addosso, e il sangue che rombava forte, lo sentivo nelle orecchie, tanto da far tacere persino il cuore, come se anche lui avesse capito che era meglio starsene zitto.
Passeranno ere, forse anche uno di quegli yuga indiani che la mitologia induista nomina con solennità, ere mitiche che divorano i secoli a colazione. Ma nessuno, e dico nessuno del mio evo, dimenticherà mai gli Esami di Stato. Erano un “rito di passaggio” che faceva impallidire quelli dei Dayak. Una battaglia. Una trincea. Un’Odissea senza il conforto di una Penelope in attesa, e con Circi che indossavano il camice grigio dei professori. E che, al posto del vino, versavano domande avvelenate; sì, trappole, insomma.

Me li sogno ancora, quei prof (ma noi li chiamavamo professori, per intero): figure mitologiche, metà professori, metà orchi pleistocenici, con orecchie aguzze e denti a sciabola. Smilodon incappucciati, pronti a sbranare qualsiasi verbo fosse coniugato al congiuntivo sbagliato.
Erano anni in cui l’obiettivo pareva non fosse far crescere l’allievo, ma stanarlo, metterlo all’angolo e colpirlo tra cuore e cervello. Uno per educare, l’altro per dominare.
Eppure, non ci crederete, io sopravvissi. Lo giuro sull’astrolabio di Magellano e sulla penna di Joseph Conrad. Anche se, a dirla tutta, sopravvivere è un verbo generoso: fui promosso per miracolo insieme a un altro, scafesso quanto me, due superstiti sui ventuno della Quita B Capitani del Nautico di Napoli, il più antico del Pianeta, come in un racconto di Melville in cui la balena bianca, però, erano la Retta Saint Hilaire e la Formula di Eulero.
E i migliori? I più puri, i più preparati? Bocciati. Un certo Russo, mio omonimo, mio compagno, genio dei numeri e delle costellazioni, fu messo al tappeto con fredda indifferenza. Dicevano conoscesse persino la chiave dei “numeri primi”, quel segreto che ancora oggi nemmeno gli algoritmi quantistici riescono a svelare. Morì giovane, imbarcato su una carrettaccia che stivava grano a New Orleans. Lo ricordo con un affetto ruvido, come si ricordano i fratelli d’armi.

Io, figlio della terraferma, mi trovavo tra lupi di mare: figli di capitani e nostromi, già con il sale nelle ossa. Io niente. Ma sapevo. Sapevo perché avevo letto. E avevo letto perché amavo. E amavo perché sognavo. Avevo un maestro personale. Un capitano ombra. Un capitano navigatore di carta stampata: Emilio Salgari, che mi fece capitano di lungo corso e un po’ corsaro. Non aveva mai visto il mare, eppure lo aveva raccontato meglio di chiunque l’avesse vissuto. Dalle sue pagine sapevo distinguere coffe da matafioni, scopamare da velaccini. Avrei potuto parlare per ore, e lo feci in quelle canoniche degli esami, della stelle, della cintura di Orione, delle Pleiadi, di Andromeda e del Leone. Delle leggende che abitano le costellazioni e declamando i versi di Saint-John Perse come uno che, invece di rispondere all’interrogazione, entra in trance profetica:
«Car le soleil entre au Lion et l’Etranger a mis son doigt dans la bouche des morts…»
Mi ascoltarono. Mi credettero “maturo”. Maturo!
Io, che sapevo solo simulare maturità con un lessico che confondeva fascino e fumo, e una memoria disinvolta che sembrava intelligenza. E fu così che un diciottenne, tutto adrenalina e citazioni, si ritrovò promosso, glorioso come se fosse passato sotto l’Arco di Costantino.
Gli altri, i miei compagni, sì, valorosi tutti, sparsi poi per mari e oceani del mondo, li ho incontrati ancora nei miei sogni e nei porti più sperduti della Terra, sempre con la nostalgia negli occhi e la voce impastata di vento. Alcuni sono rimasti. Altri sono partiti per sempre. Ma tutti, nessuno escluso, portavano quella medaglia invisibile sul petto: la battaglia degli esami di Stato.
E oggi, se dovessi dire qualcosa ai ragazzi che si trovano là, tremanti e fieri sull’orlo dell’abisso, direi solo questo:
Siate invidiati, non compianti. Perché quello che ora vi toglie il fiato, un giorno vi renderà immortali.
vr – 18.06