Quando il tempo vince…
di Vittorio Russo

Quando si diventa vecchi, ma vecchi davvero, di quella vecchiezza che non si misura in anni ma in distacchi, si comincia a coltivare un’arte sottile: quella di rallentare il tempo. Non di fermarlo, ché sarebbe impresa omerica o da folli; ma di indugiarvi dentro, come quelli che trattengono il respiro sott’acqua per sentire il battito del proprio cuore.

Si sviluppa allora una curiosa fedeltà alle cose. Le cose, sì: non ho detto i ricordi che sono cosa troppo fragile e immateriale, ma fedeltà agli oggetti che sono la fisicità dei ricordi, la loro incarnazione. Un cucchiaino preso su un aereo tanti viaggi fa, la statuina di bronzo di un idolo azteco, un sassolino piatto con la scritta di uno sperduto luogo di origine, una pallina butterata di golf raccattata per caso da qualche parte. Oggetti, oggetti banali, insignificanti ad occhi estranei. Polvere del tempo, “polvere della storia” personale di ciascuno di noi. Relitti di un naufragio incessante e silenzioso.
Se restano loro, restiamo anche noi.

È un ragionamento puerile, lo so, ma irresistibile. Così ci viene istintivo di trastullarci con cose inanimate, sono vecchi compagni di viaggio. Ci capita di parlare con loro in una lingua non fatta di parole ma di lampi che si accendono nella memoria. Accarezziamo bordi di materia consumata dal tempo, forme addolcite dall’uso. Sono gesti premurosi, poetici, come per cose vive. Perché non sono cose, sono segnalibri del tempo, sono presenze.
Non ci accorgiamo che sono oggetti logori, fragili, malati. O forse no. Fingiamo. Perché se son vecchi loro, siamo vecchi anche noi: l’accordo è tacito, il gioco spietato. Eppure, respingiamo questa reciproca decadenza con un ardore che sfiora il grottesco e suscita il sorriso spietato di chi non capisce il dialogo muto che intratteniamo con il nostro passato, mediante cose. È un modo di pietrificare la vita. Di arrestarne il corso: “Ô temps ! suspends ton vol…” come piaceva a Lamartine col suo canto romantico, di spezzarne la corsa su una soglia che ci illudiamo di poter presidiare. Ma la pietra si sgretola. E noi con essa.

Alla fine, rimane la domanda che da tempo ronzava in fondo ai pensieri: che resta veramente? Le cose che tocchiamo, o il gesto stesso che le cerca? E in quel gesto, c’è più vita o più paura?