XVII Domenica tempo ordinario (C)

“Pregare. Una felice necessità!”

<<Commento di don Franco Galeone>>

(francescogaleone@libero.it)

 

*  La domenica “della preghiera efficace”. Il capitolo 11 del Vangelo di Luca rappresenta una sorta di catechismo sulla preghiera. Nel “Padre nostro” tre note emergono subito: l’intimità, la costanza, l’efficacia. L’intimità appare nella parola iniziale, Padre, che echeggia l’aramaico “Abbà … papà”: cadono le distanze, il dialogo con Dio si fa intimo. L’altra nota è quella della costanza: la preghiera non è un’emozione, un’esperienza legata al bisogno; non si deve pregare solo nel momento del pericolo; la preghiera è un respiro continuo dell’anima. E infine l’ultima nota, l’efficacia: “Chiedete e vi sarà dato”. Un’efficacia che però non risponde alle nostre attese, ma rientra nel progetto di Dio, perché i suoi pensieri non sono i nostri, e le sue vie non sono le nostre (Isaia, 55, 8). Pregare è sempre utile, anche quando non si viene accontentati!

*  Gesù pregava. Spesso desiderava lasciare quelle folle volubili e interessate, quegli apostoli litigiosi e limitati; si ritirava in un luogo solitario, davanti al Padre, tutto solo. Lui non aveva nulla da chiedere, né pane né perdono, né protezioni né favori. Quando tornava dalla preghiera, era luminoso e rinnovato, tanto che gli apostoli si chiedevano: “Cosa è accaduto? Dov’è stato?”. A pregare! Se anche noi sapessimo pregare così! Un giorno gli apostoli hanno avuto più coraggio: “Signore, insegna anche a noi a pregare”.

Cristo non ha fatto pregare i suoi apostoli, prima che essi glielo domandassero; non ha organizzato processioni né adorazioni né scuola di preghiera … ma pregava notti intere, tanto che alla fine gli hanno chiesto: “Insegnaci a pregare”. Cristo non ha costretto nessuno a pregare, ma pregava bene e in loro presenza, senza vergogna. Non ha detto: “Voi andate in chiesa a pregare, io resto in casa a lavorare”. Pregare, quindi, davanti e con i figli, e non per dare loro il “buon esempio” ma per intima convinzione! 

E Cristo ha insegnato una preghiera non da recitare a memoria, ma da meditare con il cuore e da inverare nella vita. Cristo ha impiegato una notte intera per dire solo “Sia fatta la tua volontà”. A noi, quanto tempo occorrerà? Non si può dire un vero “Padre nostro” senza morire ai nostri cattivi progetti e risorgere alla volontà di Dio. Noi, sotto l’apparenza di formule cristiane, diciamo preghiere pagane: “Padre nostro, resta pure in cielo, non ti mescolare nei miei affari, che il mio nome sia onorato, venga il mio regno, cresca il mio potere, i miei ammiratori, e soprattutto si faccia la mia volontà”.  Come pregare? Come Cristo: poche parole e a lungo. Se dicessimo bene “Padre”, non dovremmo dire il resto. Allora tacciamo un poco, moriamo un poco, tranquilli, seduti di fronte a Gesù. Pregare significa morire e risorgere.

La preghiera non è una fuga dalle proprie responsabilità. Viene in mente il monito di un grande testimone del Vangelo: Charles de Foucauld. Si recò a Nazaret per meglio vivere in contemplazione sui luoghi terreni di Gesù; ma un giorno, mentre era tutto immerso nella sua contemplazione, dalla stanza vicina alla sua sentì un gemito; lasciò la preghiera, si recò nella stanza vicina e vi trovò un mussulmano moribondo e attorno a lui una povera famiglia in pianto. E allora Charles si chiese: “Che diritto ho io di rimanere isolato nella mia preghiera? Io devo essere come uno di loro”. Come uno di loro! Fu il suo nuovo programma di vita: si recò a vivere nel Sahara in una tribù di primitivi e ivi consumò la sua esistenza. Non dunque fuga contemplativa, isolamento orgoglioso, ma simultanea apertura a Dio che è all’orizzonte ultimo, e ai fratelli che sono all’orizzonte prossimo. Questa armonia tra la tensione verso l’Assoluto e le dialettiche conflittuali del nostro quotidiano è la qualità segreta e ineffabile della preghiera cristiana.

Mattia Branco

Ho diretto, ho collaborato con periodici locali e riviste professionali. Ho condotto per nove anni uno spazio televisivo nel programma "Anja Show".

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