FRAMMENTI DI VIAGGI MAI FINITI…

La cascata delle Marmore

di Vittorio Russo

Quando vi giungi per la prima volta non credi sia vera una cosa così. Poi, è come se ti addormentassi nell’aria che sa di nebbia tiepida trasformata in minutissime gocce. È una pioggia umile che ti veste: un abbraccio vegetale che ti purifica come un battesimo verde. Dall’altura scoscesa il rimbombo delle acque fende il baratro consumato dai flutti: una “caduta di acque, veloce come la luce…”
Non può cominciare che con i versi di Lord Byron un viaggio come questo, nelle Marmore, nel frastuono delle acque del Velino che spumeggiando affondano nella Nera. Basta immaginare per un istante e capire il significato del loro racconto. E allora, il tuono che rompe l’aria diventa canto e voce del mito che anche qui ritorna…

C’era una volta una ninfa di meravigliosa bellezza. Si chiamava Nera, era figlia di Appennino e di lei erano accesi di desiderio tutti i pastori della vallata. Solo uno però poté rubarle il cuore. Era Velino, il più gentile fra essi e anche il più ardimentoso. Immensa era però la distanza che separava una creatura immortale come Nera da un mortale come Velino, magnifico solo della sua fierezza. Le leggi del Fato non consentivano la loro unione innaturale. Eppure, anche quella volta l’amore trionfò a dispetto di tutto. Giunone, la possente consorte di Giove, furiosa perché erano trasgredite le regole nuziali cui presiedeva, punì entrambi secondo i consueti principi del contrappasso. Nera fu trasformata di colpo in un corso d’acque verdi e in esse Velino si lanciò a capofitto credendo che l’amata vi stesse annegando. E mentre egli si precipitava, Zeus pietoso interprete di tanto amore, lo trasformò nelle acque dell’omonimo fiume. Simbolismo supremo e perpetuo dell’unione di due innamorati. Perché neanche il Fato con le sue regole può prevalere sull’amore che nasce dal mistero più oscuro della vita. Da allora il temerario Velino s’immerge nelle acque dolci della Nera e si fa simbolo di un rito d’amore senza tempo.

In realtà il Velino scorrendo dall’altopiano di Rieti si fermava intralciato nel suo corso da una piana calcarea e formava malsane paludi. Nel III sec. a.C. i Romani concepirono una straordinaria opera d’ingegneria. Costruirono un canale che faceva defluire le acque verso il salto delle Marmore nel fiume Nera.

Noi procediamo con una gioia di spaesamento dentro, che ci elettrizza e con gli sguardi in su, alla ricerca del cielo che fa capolino tra gli scarabocchi verdi delle foglie delle querce, in alto.
Poco distante, quasi di colpo, esplode il rombo sordo di acque che precipitano percuotendo le rocce e sperdendosi in rivoli fra pietre corrose dal lavorio del tempo. A tratti, davanti a noi, si schiude il drappo della nebbia, formata dal frangersi di onde di pioggia e dal loro svanire come fumo.
Siamo immersi in cieli d’acque sparpagliate per l’aria sotto forma d’impalpabile pioggia. È un pulviscolo di argento liquido frantumato in uno sciame di tepore umido che scorre sul volto e sul corpo. In un istante siamo immersi nella pioggia di luce di un arcobaleno e di una spuma minutissima.

Sotto i piedi romba l’Averno di un abisso scuro di erbe, di felci giganti, di licheni. Il tuono della caduta si trasforma nel rumore indecifrabile del vuoto, prima della Nera che inghiotte le acque del Velino senza fine. Urlano le rocce sotto la sferza delle onde che scendono schiumando. Le acque sembrano impazzite. Serpeggiano come cobra in amore fra meandri di canne dalle foglie lucenti e sotto i vasti ventagli delle erbe acquatiche e dei nelumbi colorati. Più a valle, sulle rocce dalle forme addolcite dall’erosione riposano manti di muschio spessi, di un verde così intenso che gli occhi se ne ammalano ammaliati.

Sgrano gli occhi per la disabitudine a tanta bellezza e ho come l’impressione di aver sollevato il velo su un mondo solo immaginato, di quelli sconfinati che si scoprono soffiando sul pulviscolo della fantasia. Per orecchie disavvezze, è stupefacente il dialogo canoro sulle nostre teste. Sono trilli corti, pigolii delicati e gorgoglii modulati di uccelli sconosciuti celati nel fogliame di alberi tormentati da tutte le rughe del tempo. Di alberi secolari lungo il sentiero che seguiamo, tortuoso e orlato di felci umide di guazza, ve ne sono in numero incredibile. Nell’aria c’è la magia delle cose essenziali, un’armonia di una dolcezza straniante; è come se stessimo visitando un angolo sconosciuto di un’altra era del Pianeta la cui storia tentenna qui in una pausa.

Dal fragore cupo che sembra scaturire dalle profondità del cielo scende un mare turbolento di acque che pare spinto da una forza soprannaturale. Le acque del Velino precipitano iraconde come mosse da una rabbia d’istinto. Il fiume si personifica in un gigante di trasparenze molteplici che di salto in salto, squarcia la roccia, dilava il travertino per fluire poi gentile nel morbido corso della Nera. Ne accarezza le sponde coperte di muschio, sfiora le timide canne, sospira sulle felci innervate, lambisce i corimbi a grappoli, indugia sui licheni e spumeggia negli anfratti profondi. È un perfetto racconto erotico che niente meglio della simbologia del mito poteva rendere in termini di maggiore efficacia.

Mi sento al centro di questa immensa congiunzione della natura. In ogni sua immagine c’è il segno di un evento primordiale e eterno. Un tenero entusiasmo mi colma, proprio nel senso che la parola dice. Entusiasmo: hai un dio dentro di te. Avverto addosso una mano potente che è sacra dominazione su tutto. Comprendo di essere piccola cosa in questo respiro profondo di acque e di cielo. Velino è un fiume sconvolto che sprizza da ogni piega delle rocce, da ogni spigolo, da ogni spina di rupe, da un luogo e un’altezza che non vedi ma è come se fossero oltre le porte del cielo. Da lì prorompono le sue acque gorgoglianti per possedere le pari acque della Nera e allagare la Terra. Fischia tra le crepe degli antri di tufo l’acqua spezzata in mille rivoli. Nel vortice sotto è tutto un fremito elettrico. Di esso vibra lo specchio verde della vaste ninfee dai bordi sporgenti come labbra su cui si adagiano candidi loti. Il vento che la violenza dell’acqua provoca cadendo si polverizza in una nube bianca di rugiada e in essa annegano i raggi del sole.

Le cascate sono un intreccio turbolento di candore liquido. Sprizza dirocciando dai dirupi per scheggiarsi e sparpagliarsi in mulinelli vertiginosi di gocciole nell’aria pallida. Più a valle gli squarci si rompono in rigagnoli turbolenti che alla distanza diventano confusi fili di nylon in cui si attarda la luce. Sopra di noi, in una corona di chiarore lattescente, un occhio di cielo si apre su specchi di acque smeraldine come code preziose di mitici uccelli tropicali. Niente è umile in questo spazio: l’ambiente intorno esprime con superbia tutta la sua potenza di vita. Qui tutto esiste fuori dal tempo. Qui esso si conta a istanti e a eternità. Qui ogni fuscello, ogni fiore, ogni goccia, ogni respiro dell’aria obbediscono al ritmo del loro trasformarsi.
Qui è scritta in una pagina sola un’intera enciclopedia della natura.

Mattia Branco

Ho diretto, ho collaborato con periodici locali e riviste professionali. Ho condotto per nove anni uno spazio televisivo nel programma "Anja Show".

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