CANCELLO ED ARNONE – INCONTRO DI “LETTERATITUDINI” DEL 29 MAGGIO 2012

 

L’incontro mensile dei componenti del gruppo di lettura locale, meglio conosciuto con il nome di “Letteratitudini”, si è ritrovato mercoledì 29 Maggio, presso il “salotto letterario” di Matilde Maisto per parlare del grande Giovanni Boccaccio e del suo “Decameron”.

Gli amici storici: Capozzi Giannetta, Arkin Jafuri, Maisto Matilde, Manzo Pina, Montella Felicetta, Pennella Concetta, Petteruti Olga, Raimondo Raffaele, Sciorio Laura e Viola Marinella, sempre in un clima di grande convivialità ed amicizia si sono ben amalgamati con alcuni partecipanti dell’ultima ora, che si sono uniti al gruppo.

La relatrice di turno Pennella Concetta, con grande rispetto ed in punta di piedi ha iniziato ad illustrarci la vita  e le opere del poeta, proiettandomi, come per incanto, sui banchi di scuola della terza B; infatti, mentre lei parlava, sono stata invasa da un turbinio di ricordi, che mi ha travolto e resa molto felice.

La signora Pennella diceva: Giovanni Boccaccio,  narratore e poeta italiano, uno dei massimi letterati di tutti i tempi, anticipatore delle tendenze umanistiche del Quattrocento.

 Figlio illegittimo di un mercante fiorentino, Boccaccio fu allevato a Firenze. Nel 1327 si recò a Napoli con il padre, socio della compagnia dei Bardi, per compiervi gli studi mercantili e fare pratica bancaria. Qui frequentò gli ambienti mondani, partecipando alla vita culturale della città, e ben presto abbandonò la mercatura per dedicarsi alla letteratura.

Nel 1334 compose la Caccia di Diana (secondo il modulo allora in voga della rassegna di gentildonne), e intanto intensificò il lavoro di scrittore. Prese parte attiva alla stimolante vita della corte angioina di Napoli e pare abbia avuto una relazione con una figlia illegittima del re, che si cela forse dietro la Fiammetta immortalata in diverse sue opere. A Napoli subì il fascino della letteratura cortese e cavalleresca francese, ma si dedicò anche alla cultura latina e all’erudizione storica, mitologica e letteraria.

Richiamato dal padre a Firenze intorno al 1340, scampò alla terribile peste cominciata nella primavera del 1348, ebbe vari incarichi diplomatici dal governo della città e nel 1350 conobbe Francesco Petrarca, da lui ammirato e ritenuto un vero e proprio maestro. I due scrittori rimasero amici fino alla morte: Boccaccio incontrò nuovamente Petrarca a Padova nel 1351, a Milano nel 1359 e si recò a Venezia appositamente per fargli visita nel 1363. Per il Comune della sua città fu ambasciatore presso Ludovico di Baviera nel 1351. Nel 1360 ospitò a Firenze l’amico Leonzio Pilato, insegnante di greco antico, una lingua allora pochissimo conosciuta in Italia. Grazie a lui poté leggere l’iliade (vedi Omero) tradotta in latino. Nello stesso anno Innocenzo VI lo autorizzò al sacerdozio. Nel 1362 tornò a Napoli su invito di un amico ma, deluso dall’accoglienza ricevuta, si recò subito a Firenze e, per incarico della città, partì per Avignone come ambasciatore presso papa Urbano V. All’inizio degli anni Settanta si ritirò nella sua casa di Certaldo, vicino a Firenze, dove visse appartato, dedicandosi quasi esclusivamente allo studio, interrotto da qualche breve viaggio (tra il 1370 e il 1371 fu a Napoli).

Negli ultimi anni della sua vita, Boccaccio si dedicò alla meditazione religiosa. Un incarico per lui molto importante fu quello conferitogli nel 1373 dal comune di Firenze: si trattava di leggere la Divina Commedia di Dante alla cittadinanza, incarico che dovette abbandonare nel 374 per il sopraggiungere della malattia che lo avrebbe portato alla morte l’anno seguente.

Il Decameron

L’opera maggiore di Boccaccio è il Decameron (iniziato nel 1349 e portato a termine nel 1351), raccolta di cento novelle inserite in una cornice narrativa comune che prende le mosse da un tragico fatto storico. Per sfuggire alla peste del 1348, che aveva ucciso il padre e numerosi amici dello scrittore, un gruppo di dieci amici si rifugia in una villa fuori Firenze. Sette donne e tre uomini trascorrono dieci giornate (da cui il titolo dell’opera) intrattenendosi vicendevolmente con una serie di racconti narrati a turno. Un personaggio alla volta è infatti eletto re della giornata, con il compito di proporre un argomento che gli altri narratori sono tenuti a rispettare. Fanno eccezione a questo schema obbligato la prima e la nona giornata, in cui l’argomento delle novelle è libero. I personaggi hanno nomi allusivi: Panfilo è l’amante fortunato, Lauretta è la gelosa, Filostrato èl’uomo che soffre pene d’amore, e così via. Gli argomenti sono di carattere diverso: ad esempio, nella seconda giornata si raccontano avventure a lieto fine, nella quarta si tratta degli amori infelici, mentre la quinta è dedicata alla felicità che premia gli amanti dopo che hanno superato particolari difficoltà. Ma i temi non sono solo sentimentali: nella sesta giornata si ragiona di motti spiritosi, nell’ottava di scherzi e beffe. In questi racconti si alternano numerosissimi personaggi, di svariata estrazione sociale (nobili, “borghesi”, popolani), laici e religiosi, figure di tutte le età. È un vero e proprio universo ispirato alla realtà soprattutto toscana e fiorentina (con episodi ambientati in altri luoghi d’Italia – a Napoli soprattutto – e in paesi lontani), senza limitazioni nè di carattere morale, nè culturale. Vi sono infatti nobili e mascalzoni, amanti ingegnosi e uomini poveri di spirito, donne fedeli beffate e spregiudicate figure femminili, personaggi storici e di invenzione. Così, le condotte degli eroi sono ispirate sia a ideali elevati sia a interessi materiali, non ultimo il desiderio sessuale. Alcuni protagonisti, con le loro storie, sono diventati celebri: basti pensare all’incallito peccatore ser Ciappelletto e alla sua falsa confessione in punto di morte che lo farà considerare santo presso i posteri, oppure alle numerose beffe di cui è vittima Calandrino, agli sproloqui di frate Cipolla che sostituisce alla realtà il suo mondo cialtronesco, oppure alla nobiltà d’animo di Federigo degli Alberighi. Questa straordinaria varietà di ambienti, temi e personaggi non implica, tuttavia, la mancanza di una struttura coerente. Infatti, oltre allo schema della cornice e a quello che regola l’alternarsi delle voci narranti, le corrispondenze sono sia disseminate all’interno dell’opera sia organizzate in una progressione di tipo etico. Dalla prima alla decima giornata si passa cioè dal dominio del vizio al trionfo della virtù, naturalmente in modo non meccanico, e con eccezioni che hanno il compito di variare questa successione di stampo morale. Alla base dell’inventiva di Boccaccio ci sono il gusto per il romanzesco (ma qui, a differenza di altre sue opere, si tratta di un romanzesco impregnato di realismo), l’attrazione verso la vitalità della giovinezza, l’attenzione critica che porta a superare le apparenze, una visione disincantata della vita. Ogni giornata si conclude con una canzone, squisito esempio della lirica boccaccesca, intonata dai personaggi che ballano.

lì Decameron rappresenta il primo e più grande capolavoro in prosa della tradizione letteraria italiana antica, e si distingue per la ricchezza e la varietà degli episodi (che alternano toni solenni e umorismo popolare), per la duttilità della lingua e la sapiente analisi dell’animo umano. Sul piano stilistico si tratta di una prosa decisamente elaborata, tanto che il modo di dire, affermatosi in seguito, “periodare alla certaldese” allude proprio alla struttura spesso molto articolata della frase, modellata sulla sintassi latina. Una prosa che però si dimostra particolarmente duttile, visto che riesce con grande efficacia a rappresentare scene tragiche ed episodi comici, eventi nobili e beffe plebee.

Per questa sua opera Boccaccio attinse a molteplici fonti: i classici greci e latini, il fabliau francese, la letteratura popolare compreso il patrimonio delle fiabe tradizionali, le raccolte di novelle italiane precedenti come il Novellino e le varie traduzioni contaminate delle Mille e una noffe. Alla base, però, c’è anzitutto l’acuta osservazione della realtà contemporanea. lì Decameron presenta una nuova idea dell’uomo, non più indirizzato esclusivamente dalla grazia divina ma inteso come artefice del proprio destino, un’idea che anticipa la concezione antropocentrica (l’uomo considerato al centro dell’universo) che sarà elaborata dagli umanisti del Quattrocento. Anche per questo aspetto ideologico il libro segna un punto di svolta rispetto alle tradizioni letterarie consolidate nel Medioevo.

L’opera, che ha il sottotitolo alighieriano di “principe Galeotto”, fu scritta nel 1349-1353, all’indomani cioè della peste del 1348: l’evento luttuoso dà “orrido cominciamento” all’opera. Il testo fu poi revisionato e ritrascritto. Il titolo è grecizzante, forgiato probabilmente sul titolo dell'”Hexameron” di Ambrogius. Le digressioni sulle attività idilliche e beate della brigata, i commenti vari degli ascoltatori, le intrusioni e le conclusioni dell’autore, animano e variano lo schema della cornice. La cornice non ha funzioni solo ornamentali, ma serve a chiudere in un affresco caratterizzato un ideale di vita e di realtà che i racconti presentano e rifrangono nei più vari e multiformi aspetti. All’interno delle singole novelle si riproduce in poliedriche sfaccettature una viva unità, quella della complessa vita umana la cui salvezza tutta laica è additata da Boccaccio nella forza della passione e dell’intelligenza.

Nei racconti di Boccaccio sfilano una galleria vasta e multicolore di vicende e figure, emblemi e simboli di virtù e di vizi. Lo sguardo dello scrittore è ora distaccato ora ironico, ora appassionato e partecipe, ma sempre senza compiacimenti. Così gli eventi valorosi di Tito e Gisippo, le passioni erotiche e travolgenti della moglie di Guglielmo Rossiglione, di Ghismonda di Salerno, di Lisabetta da Messina; le traversie degli sciocchi come Andreuccio da Perugia, Calandrino, Ferondo; le trovate argute degli ipocriti e imbroglioni come frate Cipolla, ser Ciappelletto, Martellino; gli affreschi maliziosi e ridanciani come il racconto delle monache e della badessa, o la novella di Masetto da Lamporecchio; le più raffinate qualità dell’arguzia gentile di Cisti fornaio, l’intelligenza di Melchisedech, l’ingegno e la modestia di Giotto, l’aristocrazia di Guido Cavalcanti. In questo quadro rientra anche l’osceno e il licenzioso.

Dell’erotismo Boccaccio rivendica i diritti anche per l’arte argomentando i temi di una consapevole poetica della natura e del comico nella introduzione alla Quarta Giornata, ricca di spunti polemici e innovatori. Nella sua opera la realtà prende il posto del mito e dell’allegoria, mentre il genere novellistico degli ameni fabliaux e dei devozionali exempla è ribaltato in una fitta e cangiante trama di realismo comico e tragico, in cui predominano amore, avventura, intrigo, beffa, odio, riflessione morale. Così ad esempio la novella di Lisetta (IV giornata), ambientata nella Venezia dei primi del XIV secolo. La storia è quella di Alberto da Imola che per fottere con una ragazza le fa credere di essere l’arcangelo Gabriele. Lisetta, “baderla e zuccalvento”, si vanta della faccenda con alcune sue amiche, suscitando ovviamente risa e sberleffi. Quando i parenti di Lisetta cercano di sorprendere Alberto, questo si salva buttandosi da una finestra nel Canal Grande e rifugiandosi a casa di un pover’uomo che però lo fa travestire da “uom selvatico” e lo espone poi in piazza ai lazzi della gente. I frati giustizieri poi lo portano via e lo condannano al carcere perpetuo. Quel che importa non è la conclusione, il ritorno all’ordine, quanto il gusto stesso della narrazione, tra malizia e dissacrazione. Il racconto è tipicamente una parodia: parodia degli exempla devozionali e dei racconti religiosi sull’apparizione angelica presso beate e vergini, parodia dei modi dello stilnovo e degli amori cortesi (Lisetta è “dolce” sì , ma “dolce di sale” cioè stupida: ma è solo una tra le tante parodizzazioni e distorcimenti proposti), e dissacrazione anti- veneziana della più famosa e fastosa sacra rappresentazione che si celebrava al tempo proprio a Venezia (allora nemica e concorrente di Firenze), la festa dell’annunciazione detta “delle Marie”.

Un favolismo in cui vi è posto anche per sprazzi di horror. Così nel racconto ravennate di Nastagio degli Onesti (V, 8): “Nastagio degli Onesti, amando una de’ Traversari, spende le sue ricchezze senza essere amato; vassene pregato da’ suoi a Chiassi; quivi vede cacciare a un cavaliere una giovane e ucciderla e divorarla da due cani; invita i parenti suoi e quella donna amata da lui a un desinare, la quale vede questa medesima giovane sbranere: e temendo di simile avvenimento prende per marito Nastagio”, secondo il sommario di Boccaccio. Leggende di cacce infernali tra selve spettarli o avelli infuocati correvano da secoli l’europa, anche su suggestioni orientali e di mitologie nordiche. Erano attribuite a Odino, a Artù , oppure – in Italia – a Teodorico di Ravenna. Queste fantasie d’oltretomba assunsero l’aspetto di particolari forme di punizione per peccati e delitti soprattutto d’amore. Elinando e forse anche Passavanti furono autori di narrazioni di questo genere. Ma Boccaccio colorò l’allucinante scena della caccia infernale di elementi sognatamente orrorosi, su suggestioni e allusioni che oggi etichettiamo come aligheriane (si pensi a “la divina foresta spessa e viva […] | tal qual di ramo in ramo si raccoglie | per la pineta in sul lito di Chiassi” di Alighieri, in: Purgatorio, XXVIII, 2 e versi successivi. Ma anche ai vari cani famelici presenti in Inferno XIII, 111; e Inferno XXXIII, 31). Boccaccio, rispetto a Elinando e a Passavanti, inserisce i cani, che movimentano in maniera selvaggia tutta la scena. Indirettamente tutta la scena rievoca il mito classico di Atteon sbranato dai cani per volere di Diana, solo che qui non è più la vendetta di una donna sull’uomo colpevole di irriverenza amorosa, ma dell’uomo offeso su una donna spregiatrice d’amore (com’è anche nella novella dello scolaro, in VIII, 7; come sarà poi nel “Corbaccio”). La caccia infernale non ha senso esclusivo tutto punitivo, come nella mitologia antica e nella tradizione romanza; né ha valore di minaccia di fuochi demoniaci come nella letteratura ascetica e degli exempla fino a Passavanti. In Boccaccio diventa un episodio, in un largo e luminoso affresco patinato d’oro antico, della società signorile ravennate, evocata con il linguaggio di amori appassionati e di generose cortesie. L’immagine tremenda della caccia nella foresta di Chiassi assume una funzione redentrice: permette alla Traversari di redimersi, diventare da nemica ancella d’amore. E così giungere alla conclusione ‘naturale’ del matrimonio, come sempre avviene in Boccaccio. In questa novella, con un chè di solenne e festoso, grazie all’uso dei ritmi musicali del settenario e dell’endecasillabo (“e fatte le sue nozze, con lei più tempo lietamente visse”).

Il “Decameron” è specchio fedele e arguto della civiltà mercantile borghese, della società comunale italica nel suo pieno sviluppo, ma in cui si avvertono sintomi di crisi. Una realtà di traffici, di lotta per sopravvivere, di conquista e violenza, di ingegno industrioso e abile. Boccaccio coglie ombre e luci di un passato ancora vivo, di un futuro problematico ma anche fiduciosamente atteso. La struttura del “Decameron” si attua anche grazie a una prosa policorde e variabile, lavorata a più livelli. Solenne e distesa in periodi ipotattici. Scattante, secca, dinamica. In altri punti estrosa e sempre duttilissima nel mimare dialoghi mordenti e vivacissimi.

Il “Decameron” ebbe una immediata diffusione, sia in Italia che in europa. Numerose furono subito le traduzioni e imitazioni. Un influsso che si ebbe sui novellieri posteriori come Sacchetti, Masuccio da Salerno, Giraldi Cinzio ecc. Ma anche sui trattatisti come Bembo, Della Casa, Castiglione, che inserirono i loro dialoghi in una cornice mutuata dal “Decameron”; e soprattutto sul teatro del XVI secolo, che derivò trame comiche e romanzesche, e procedimenti retorici. Retori e grammatici del XVI secolo lodarono l’opera come modello di stile; sospetto e censura vennero dagli ambienti cattolici e sessuofobi. La critica romanticistica, nel XIX secolo procedette a rivendicarne il valore umano e la varietà di motivi; in particolare si ricordi la lettura di *De Sanctis che paragonò la “commedia umana” di Boccaccio alla “commedia divina” di Alighieri.

Mattia Branco

Ho diretto, ho collaborato con periodici locali e riviste professionali. Ho condotto per nove anni uno spazio televisivo nel programma "Anja Show".

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