Il Signore ci guarisce, per servire i fratelli!

7 febbraio 2021/V domenica del TO

Il Signore ci guarisce, per servire i fratelli!

Prima lettura: Un soffio è la mia vita (Gb 7,1). Seconda lettura: Guai a me se

non predicassi il vangelo (1Cor 9,16). Terza lettura: La febbre la lasciò ed

essa si mise a servirli (Mc 1,29).

Il male: un “mistero” non un “problema”

1) Circa 2200 anni a.C. un anonimo componeva in Egitto il Dialogo di un disperato con la sua anima: il protagonista, sconvolto da una tragedia personale, pensa al suicidio: “Oggi la morte mi sta dinnanzi come la guarigione per un malato, come la libertà per un prigioniero!”. Siamo agli albori della letteratura egiziana e subito affiora il problema del dolore. Qual è l’origine del male? Per quale motivo soffriamo?

2) Nel tentativo di rispondere a tali questioni, gli uomini hanno cercato la soluzione facendo ricorso a Dio, ma questo ha complicato il problema poiché la religione cristiana non si limita alle sofferenze di questa vita, ma s’interessa alle sofferenze dell’altra vita! Non ci bastavano le disgrazie di questo mondo! Bisogna spiegare anche quelle dell’altro mondo! Con un’aggravante: le sofferenze dell’aldilà sono eterne! Davvero la teologia cristiana ha reso difficile l’argomento Dio. Un buon tentativo di spiegare il problema del male si ha nel libro del teologo spagnolo J. A. Estrada, La imposible teodicea.

3) Altri hanno escogitato un’altra teoria: la colpa non è di Dio, ma dell’uomo, che è peccatore e cattivo. E hanno cercato nell’Antico Testamento le prove: Adamo ed Eva, espulsi dal Paradiso a causa del loro peccato. Ma colpevolizzare l’uomo rifacendosi al cosiddetto peccato originale è altrettanto insostenibile. La stessa idea si ripete nel racconto di Giobbe, che presenta un’immagine crudele della divinità: Dio prova Giobbe a costo della morte dei suoi figli, senza che nemmeno vi sia un risarcimento (Gb 1,18; 42,13). Il problema del male è perfettamente formulato dagli amici di Giobbe: “Se i tuoi figli hanno peccato contro Dio, li ha messi in balia della loro iniquità” (Gb 8,3). Tale idea era la concezione popolare di quei tempi, che vedeva la sofferenza come un castigo per il peccato. E questo modo di pensare continua a vivere nella coscienza di molta gente. Tutti abbiamo udito qualche volta qualcuno chiedersi: “Che avrò fatto io di male perché mi accada questo?”.

4) Ma il problema del male non si risolve scagionando Dio, per colpevolizzare l’uomo. Poiché, alla fine dei conti, chi ha fatto l’uomo è stato Dio. Se Dio ci ha fatti liberi di peccare, e poi ci castiga perché abbiamo peccato, con tutta ragione possiamo chiedere a Dio: “Perché ci hai fatti così?”. Inoltre, vi sono tantissime sofferenze che non dipendono dalla libertà di nessuno. Continuare a dire che Dio non “castiga”, ma “permette” i mali e le disgrazie che avvengono in questo mondo, significa immettersi su una strada che inevitabilmente termina nell’assurdo. Parlare di pedagogia di Dio che educa i figli attraverso la sofferenza è sadismo teologico. E chi ha detto che il dolore umanizza? Dare queste spiegazioni teoriche significa impartire lezioni di igiene alimentare a chi sta morendo di fame!

5) Stando così le cose, è più ragionevole dire che non esiste una spiegazione alla nostra portata: tanto Dio come il male sono due realtà oltre la nostra capacità di capire. Ci troviamo di fronte a due “problemi”,meglio, a due “misteri” (G. Marcel). Tra problema e mistero c’è una differenza sostanziale: il “problema” è un ostacolo che incontro, che posso analizzare e risolvere, con l’affinamento della ragione; il “mistero”, invece, resterà sempre tale: l’uomo può comprendere il problema, ma il mistero comprende l’uomo. Insomma, ignoramus et ignorabimus. Dio e male sono due misteri (o metaproblemi), che noi non riusciamo ad armonizzare. Sembra che possiamo riassumere così:

> sappiamo anche che “Dio nessuno l’ha mai visto” (Gv 1,18). Questo vuol dire che non sta alla nostra portata sapere e spiegare perché esiste la sofferenza umana. Affermare che Dio “vuole” o “permette” il male e le disgrazie che succedono nel mondo è dare una spiegazione, è comprendere l’incomprensibile. Ma a costo di ripetermi, Dio e male non sono due problemi ma due misteri o metaproblemi;

> la cosa più sicura che possiamo sapere è che Dio non è causa di sofferenza, ma colui che annuncia e assicura la felicità a quanti soffrono (Lc 6,20; Mt 5,1). Naturalmente, nel dire ciò, non risolviamo tutti i nostri dubbi. Gesù non ha rivelato un Dio che è la soluzione di tutti i mali;

> bisogna slegare Dio, una volta per tutte, dai beni e dai mali che accadono in questo mondo. Non dobbiamo gloriarci della nostra felicità, quasi fossimo dei privilegiati da Dio, né dobbiamo disperarci delle nostre disgrazie, quasi fossimo dei castigati da Dio (Gv 9,3). Io so che ciò pone domande che non hanno una risposta soddisfacente. Ma so parimenti che, quando associamo il problema del male con Dio, le domande allora hanno meno risposte, e spingono molte persone alla disperazione o alla bestemmia;

> ciò non vuol dire che non possiamo o non dobbiamo ricorrere a Dio nella preghiera, presentargli le nostre preoccupazioni. Però non siamo certi che Dio ci concederà quanto gli chiediamo. Quando i vangeli parlano di quest’argomento, si limitano a dire che Dio darà “cose buone (ἀγαθὰ/agathà) a quelli che gliele chiedono” (Mt 7,11). Ma quali sono per noi le cose buone? È facile sbagliarsi. In ogni caso, Gesù non si lascia coinvolgere in disquisizioni teoriche sul dolore e prospetta la sua soluzione: il male esiste e non va spiegato, ma combattuto. Dio non manda il corona virus, il terremoto, la guerra … ma suscita il medico, l’ingegnere, il pacifico …

Uscito dalla sinagoga, entrò in casa

6) Va messo in evidenza quel sapore domestico della scena di fondo, quel sapore di cose effettivamente accadute e vedute, quella naturalezza con cui coesistono soprannaturale e naturale, fede e vita, cielo e terra. Forse è stato lo stesso Simon Pietro a raccontarle così al suo discepolo Marco! I miracoli sono riferiti in tutta semplicità; lo stesso Gesù, nell’atto di compierli, si mostra senza piedistallo, persona tra persone. Poche pagine, come questa, ci fanno percepire la sua doppia natura, il suo essere vero uomo e vero Dio. Anche quel suo non volere essere riconosciuto per il Messia, ci ricorda che egli rifiuta quella fede facile, quella che crede nel Dio dei miracoli; Egli, invece, chiederà la fede più difficile, quella che crede nel Dio della croce. Mi pare di leggerlo in quelle parole: “Andiamocene altrove!”. La vita di Cristo fu segnata da questa preoccupazione: non lasciarsi catturare dall’uomo, perché l’uomo vuole un dio a sua immagine e consumazione. Gesù chiede prima la fede; il miracolo forse verrà dopo. La guarigione del corpo è finalizzata alla guarigione del cuore.

7) Marco ha la tendenza a organizzare lo spazio e il tempo:

lo “spazio” è dato dalla sinagoga, dalla casa; il luogo della preghiera pubblica e il luogo della vita privata. L’indicazione è evidente: Marco mette insieme lo spazio religioso e quello profano, il pubblico e il privato. A Gesù interessa l’uomo nella sua totalità. Il vangelo non può essere relegato solo nel sacro recinto della religione ma della vita;

il “tempo” è dato dall’organizzazione della giornata: in una sola giornata Marco concentra avvenimenti accaduti anche in giorni diversi; gli avvenimenti di questa “giornata-tipo” non sono tutti accaduti nell’arco di 24 ore: Gesù insegna nella sinagoga, guarisce la suocera di Pietro, guarisce molti malati al tramonto, si rifugia a pregare tutto solo. La giornata si apre con la preghiera pubblica e si chiude con la preghiera personale. E le nostre giornate? Iniziano e si chiudono con un segno di croce, con un grazie a Dio, a cui dobbiamo tutto?

Tutti ti cercano!

8) È un’umanità sofferente, dalle origini ad oggi. A volte la fede inizia proprio dalla scoperta di questa condizione fragile. La condizione umana viene rappresentata non in modo metafisico ma crudamente realistico. E Gesù non solo predica ma guarisce. È tutto l’uomo che Gesù vuole salvare, mente e corpo, spirito e materia. Egli cura gli infermi e predica il vangelo, moltiplica i pani e promette l’eucaristia, guarisce evangelizzando ed evangelizza guarendo. Il Nuovo Testamento usa 4982 volte lo stesso verbo “σώζειν/sòzein” per indicare la guarigione del corpo e la salvezza dello spirito. In ogni malattia, anche nella febbre della suocera di Pietro, c’è il segno della fragilità. La malattia non è un incidente casuale ma una necessità causale; è l’anticipazione di una fine, è l’artiglio della corruttibilità piantato nella carne. Quando vediamo questa ontologica fragilità umana divenire fenomenica nella malattia, nella vecchiaia, nella solitudine … dobbiamo stare attenti a non scivolare nella facile retorica. Daremmo ragione a K. Marx quando scrive che “Die religion ist das opium des Volkes”. Gesù è invece umano sino al miracolo; Egli non incontra tanto il male quanto i malati, non i diavoli ma i poveri diavoli. Gesù lo troviamo molto raramente tra la gente per bene, in mezzo a uomini sufficienti ed efficienti. Davanti a loro spesso tace, come di fronte a Pilato, al sommo sacerdote. Quei malati nei lettucci sono stati il primo pubblico di Gesù.

Guarita dalla febbre, si mise a servire

9) Le suocere, si sa, non godono di buona fama. Ma questo episodio del vangelo costituisce un vero e proprio elogio della suocera; ci rende simpatica questa donna di cui non conosciamo nulla, se non che era la suocera dell’apostolo Pietro. A ben riflettere, questo dev’essere anche il

nostro itinerario di fede. Ognuno ha le sue “febbri”, i suoi piccoli e grandi vizi, difetti, passioni … Occorre guarire, meglio essere guariti, perché, come per la suocera, la salvezza non viene da noi, ma da Dio. La vita di ogni uomo è sovente un alternarsi di febbri e guarigioni, di malattie e di servizio. Quando si ha la febbre di qualche passione o distrazione, non si può servire. Sarebbe tragico se, una volta guariti dalla febbre, utilizzassimo la vita e la salute per correre dietro a nuove febbri. Certamente Gesù non guarisce la suocera per motivi utilitaristici né per essere servito. Ma ogni grazia è un appello, ogni guarigione un invito. Preghiamo questa suocera santa, perché anche noi, una volta guariti, ci mettiamo a servire il Signore e i fratelli. Liberàti per servire: ecco il nostro itinerario spirituale!

Come pregava Gesù

10) Questo vangelo ci mostra che la preghiera era molto importante nel progetto di Gesù. Nei vangeli abbondano i dati su questo tema (Mc 1,35; 6,46; 14,3.35.39; Mt 14,23; 19,13; 26,36.42.44; Lc 3,21; 5,16; 6,12; 9,18.28.29; 11,1; 22,41.44.45). Questi testi ci fanno comprendere l’importanza della preghiera nella vita quotidiana di Gesù. Quando la preghiera non si riduce ad un mero rituale sacro, ma diventa un’esperienza davanti a Dio e davanti alla sofferenza umana (entrambe le cose contemporaneamente), allora la preghiera si sente come una necessità pressante. La preghiera di Gesù è una lezione esemplare, più profonda di quello che immaginiamo. La preghiera è una delle prove più evidenti del fatto che Gesù era un “essere umano”. E come ogni essere umano, sentiva la necessità di chiedere aiuto al Padre, al quale si rivolgeva con frequenza. Gesù è stato profondamente umano perché è stato profondamente spirituale. E di pregare abbiamo bisogno tutti, se vogliamo essere davvero umani. Ci sono modi di pregare che istupidiscono e ci sono modi di pregare che umanizzano.

11) Come pregava Gesù ce lo dice Luca: “si ritirava in luoghi deserti e pregava” (Lc 5,16); “trascorse la notte intera pregando Dio” (Lc 6,12); “salì sul monte per pregare” (Lc 9,28); “se ne andò, secondo il suo solito, al monte degli Ulivi e si mise a pregare” (Lc 22,39). Per pregare non andava al Tempio, ma in luoghi solitari, in campagna, sulla montagna, sulla riva del lago (Mc 1,35; Mt 14,23; Lc 5,16). Gesù aveva chiamato ipocriti quelli che ostentavano la loro religiosità “per farsi notare dagli uomini” (Mt 6,5). Gesù vuole che noi pratichiamo una religiosità nascosta (ἐν Ï„á¿· κρυπτῷ/en thò kruptò), perché Dio vede nel segreto (Mt 6,4; Lc 5,16). Il Dio di Gesù non vuole una religiosità ostentata ma una vita onesta: le “opere buone che facciamo” (Mt 5,16). Le parole di Gesù “Non chi mi dice: Signore, Signore” (Mt 7,21) vogliono insegnare che determinante nella vita non è la pietà, la preghiera, la devozione … ma i risultati che ne derivano: pratiche di bontà, questo devono diventare le pratiche di devozione: “dai loro frutti li riconoscerete” (Mt 7,20). Attenzione: bisogna pregare, ricevere i sacramenti, andare in chiesa … ma le pratiche religiose che non diventano buone azioni vengono bollate da Gesù come ipocrisia (Mt 6,1). In sintesi, l’aspetto decisivo per il cristiano è una vita etica, segnata dall’amore, dall’onestà, dalla giustizia (Gv 15,17). Buona vita!

A cura del Gruppo biblico השּׁרשים הקּדשים Le Sante Radici

Per contatti: francescogaleone@libero.it

Mattia Branco

Ho diretto, ho collaborato con periodici locali e riviste professionali. Ho condotto per nove anni uno spazio televisivo nel programma "Anja Show".

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