IL TEMPIO D’ORO A VARANASI (KASHI VISHWANATH) DELLO SCRITTORE VITTORIO RUSSO L’INSTANCABILE VIAGGIATORE

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Varanasi è una delle città più antiche della terra, Mark Twain ha scritto che esisteva prima della storia e perfino prima delle leggende. Gli indiani la chiamano Kashi che significa luminoso. Questo è il luogo reso sacro da Shiva che qui venne a purificarsi nelle acque del Gange dopo aver mozzato una delle cinque teste del dio Brahma, reo di incesto con la propria figlia. Il Kashi Vishwanath, nel quale in maniera un po’ rocambolesca sono riuscito a entrare perché luogo di culto riservato unicamente agli indù, è dedicato a questo dio, Signore Universale, che è poi il significato di Vishwanath. Shiva è qui rappresentata nella duplice forma del lingam, simbolo della sua potenza generativa e del mahakala, ovvero la sua potenza distruttiva.

a_ (4) (Large)a_ (6) (Large)a_ (10) (Large)Il culto del lingam è antichissimo: ne sono state trovate testimonianze nella Valle dell’Indo, ad Harappa, che risalgono al 3300 a.C. È un emblema, metafora della vitalità e dell’unione cosmica tra il principio maschile che esso raffigura, e quello femminile, lo yoni. Il lingam è fonte di vita e di intelletto così come lo yoni è simbolo dell’energia cosmica. Nei templi dedicati a Shiva, esso sormonta lo yoni, che letteralmente vuol dire vagina e simboleggia Parvati, o meglio Shakti, il principio energetico femminile e quindi la potenza erotica nell’unione sacra con Shiva suo sposo. Il lingam al centro dello yoni è una delle più frequenti riproduzioni sacre dell’Induismo ed è onorato con abluzioni di latte, burro chiarificato, fiori, acqua profumata e, principalmente, foglie di mango e polveri colorate.

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Il tempio originale, costruito nel luogo della luce (kashi che significa luminoso come detto), fu in verità distrutto e riedificato più volte per essere poi cancellato definitivamente da Aurangzeb, un imperatore moghul celebre per la sua ossessiva ortodossia islamica. Al suo posto fu empiamente edificata l’attuale moschea Jnana Vapi con i suoi altissimi minareti, che sono pure gli unici elementi architettonici di un qualche rilievo. Jnana Vapi, che significa Pozzo della Saggezza, era in realtà una cavità all’interno del Kashi Vishwanath originario nella quale, stando alla tradizione, un bramino dell’epoca si sarebbe lanciato con un antichissimo lingam di pietra per proteggerlo dalla profanazione degli invasori islamici.

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Il luogo di culto attuale risale alla seconda metà del 1700 e fu eretto da una maharani di Indore con grande dispendio di ricchezze. Esso è noto pure come il Tempio d’Oro proprio perché la copertura del suo shikara, ossia la cupola piramidale, che supera i quindici metri di altezza, è interamente rivestita di uno spesso strato di questo metallo. Si dice che pesi quasi una tonnellata. Questo tempio è verosimilmente il più importante fra i dodici santuari nei quali Shiva è adorato sotto forma fallica. Il lingam di granito nero levigato, al centro di uno yoni d’argento, è collocato in una cassa dello stesso metallo, lucente di burro chiarificato e sommerso in una profusione di fiori. È visitato ogni anno da non meno di un milione di persone. Io sono riuscito ad entrare nel Tempio con un amico, Kush, un giovanotto di incredibile coraggio e intraprendenza, bravo a litigare con tutti dominando la sua voce con autorevolezza di sovrano rajput. Seguendolo scalzo, sono passato su un letto di liquami che allagava il pavimento di marmo annerito dal tempo.

a_ (29) (Large) a_ (31) (Large)a_ (42) (Large)Mi sono soffermato indugiando, se si può indugiare in un luogo dove ti premono come olive in un frantoio, a osservare e anatomizzare tutto. Insomma, mi sono comportato da indù ripetendo mantra e gayatri facendo eco a Kush, a panda e a bramini stizziti, smaniosi solo di stamparmi sulla fronte macchie rosse e strisce di cùrcuma per ottenere qualche rupia che spariva per incanto fra le pieghe unte dei loro dothi. Munito della mia offerta: una coppa di foglie di mango con calendule, corone di gelsomini bianchi e khanda, i granellini di zucchero sacro, ho fatto le mie oblazioni. Con i piedi costantemente annegati in un putridume denso, tra corolle di fiori di loto e foglie di ashok, sono entrato nel mandir principale passando sotto un arco lobato, bassissimo, di argento massiccio e decorato con ingenue immagini di Shiva. L’ambiente era angusto, affollato, ardente di calore umano, di fumo di canfora e di odori brucianti. Facendomi largo all’indiana con gomitate puntute, ho raggiunto la vasta vasca d’argento immersa in un’acqua densa di impurità impressionanti. In mezzo ho scorto maestoso il lingam di Shiva di pietra scura al centro di uno yoni d’argento da cui scorreva latte sporco misto a ghee, il burro chiarificato, versato a profusione sul lingam. Mi sono adeguato. Ho sparso il mio latte sul sacro simulacro pigiato da devoti con gli occhi gonfi di lacrime per il fumo e per l’esaltazione mistica. Ho pagato altri oboli e ho proseguito per il mandir successivo. A uno a uno ho battuto i pavimenti schiumosi e unti del tempio sommerso dalle cadenze stridenti di piatti di ottone e la voce roca di un sacerdote lontano, sfibrata come quella di un monaco tibetano.

All’uscita, fra poliziotti e sacerdoti indaffarati a spillare denaro ai pellegrini, mi sono ritrovato inzuppato di liquidi estranei, tutti parimenti immondi.

Le manifestazioni di devozione qui hanno qualcosa di sconvolgente, come ogni espressione di fede d’altronde quando diventa credulità e aberrazione.  Questo dimostra dove può arrivare la fede quando diventa credulità e la credulità fanatismo. Ancorché difficile connotare perfettamente la differenza tra adorazione e venerazione in senso pratico, qui si possono escludere entrambi i verbi e parlare di parossismo. Come definire altrimenti il fervore opprimente cui si assiste in questo tempio? I fedeli che versano latte sacro sul lingam e depongono corone di gelsomini nello yoni, fanno niente più che una puja, ossia un’offerta alla divinità. Quello che sconvolge è il modo esaltato con cui questo avviene, cioè fra canti scomposti in una calca strepitante che urla parole prive di senso, passando da un mandir a quello successivo, sotto bassi architravi, camminando su marmi consumati dall’uso, nel fumo acre di incensi, recitando mantra assillanti davanti a idoli di pietra, ripetuti con voce incalzante da bramini sudati che ti martellano la fronte con tikka purpurei e strisce di vibhuti, la cenere sacra. Tutto questo non ha molto a che vedere con la spiritualità e la visione filosofica, che sono proprie dell’Induismo, nascoste dietro queste ritualità sgradevoli e plateali.

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Fra il tempio e la moschea vi sono gruppi di poliziotti e di militari armati di tutto punto, alcuni anche mimetizzati tra la folla ma ben riconoscibili. La ragione è antica e in qualche modo adombrata nelle premesse storiche di cui ho detto prima. Il simbolo di Shiva, quello più antico, secondo la tradizione sarebbe ancora sepolto nella moschea e questo alimenta il rancore degli indù nei confronti dei musulmani. Non bisogna poi dimenticare i frequenti attentati che sono l’espressione peggiore di un antagonismo fra le due confessioni che molto spesso si traduce in odio. Non si può che restare turbati per la minaccia che grava come una nube di violenza anche in questo spazio consacrato. Follia terribile l’odio che prendendo a pretesto Dio ne fa il cardine di assurde tensioni, il paradossale signore dell’incubo di queste pietre di remota sacralità e luoghi che dovrebbero essere di raccoglimento, di pietà e di comprensione! Ma in India pietà e comprensione non sono contemplati. Anche se per lunghi secoli la cifra della civiltà indiana è stata costantemente la tolleranza.

 

 

 

Mattia Branco

Ho diretto, ho collaborato con periodici locali e riviste professionali. Ho condotto per nove anni uno spazio televisivo nel programma "Anja Show".

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