LA FESTA DEL FUOCO A CASCANO.

 

 

di Vittorio Russo

 

Cascano è un borgo non lontano da Sessa Aurunca, dove si festeggia per molti giorni la festa del patrono, san Giuseppe. C’è molto di carnevalesco nella manifestazione perché in essa prevale, una ritualità profana e molto intrigante.

La tradizione folklorica la dice lunga sulla natura più antica della ricorrenza. Essa ha ben poco di cristiano e ancor meno della sacralità della leggenda del santo patrono, già scarna nelle fonti evangeliche. Anche a naso si capisce che la rievocazione radica le sue origini in antiche e sfumate espressioni di religiosità pagana.

Il fuoco, che è il filo d’Arianna e il centro della manifestazione, è pure l’elemento più ricorrente di ogni linguaggio religioso. Qui a Cascano, diventa pretesto di allegria e momento di esaltazione quasi bacchica e di gozzoviglia, dove l’elemento sacro è del tutto assente. Non so quanto di priapesco si nasconda dietro le quinte della generale spensieratezza, ma non dubito che esso pure ne sia parte, nella continuità più remota di un rito dionisiaco o di un saturnale.

Cammino nella folla che si assiepa e ostruisce i vicoletti contorti. Aria di festa rumorosa intorno. Il fumo mi avvolge, mi ingolfa il respiro e folate di faville mi ronzano scoppiettando sulla testa. L’allegria è autenticamente contagiosa. Mi offrono vino rosso, dal sapore vivace e pagnottelle gonfie di friarielli e salsicce. Allegria, sorrisi, spontaneità suprema di donne in abiti neri. Hanno volti forti di arcaiche madri sannite, i capelli avvolti in fazzolettoni colorati, il grembiule unto alla vita, larga per parti replicati senza tregua. Mi avvicino a due matrone anziane dalle grandi forme delle matres matutae di un’antichità che qui continua intatta. Sono sedute difronte a un grande falò sul quale potrebbe arrostire un’ecatombe di giovenchi alimentato com’è da ceppi annosi e fascine secche. Le due donne sembrano vegliare un malato in una sorta di venerazione presepiale. Hanno davanti colonne di fuoco da cui si levano nugoli di scintille, sprazzi e schegge sfavillanti che brillano per un attimo nel buio spinte in alto dai lamenti di un vento a tratti aspro come il vino, rude come i ceci, i fagioli cotti nelle pignatte e questo pane che è invece sapido di buono. Le due donne sono lì, immote, in un silenzio coscienzioso e sacro malgrado il vociare che le investe e il fuoco che inghiotte il buio con le sue vampate fiere. Sono lì a osservare il nulla nel rosso delle fiamme con la fissità delle oranti, affascinate dal mistero del calore e dei guizzi capricciosi che si levano come sciabolate di san Michele su Lucifero. Rivolgo loro domande di curiosità e con curiosità anche maggiore mi rispondono:

«Ma comme nun ‘o ssapite che è a feste e san Giuseppe! Cca se fa accussì. Pigliate, mangiate…» e mi offrono con gesti gemelli, a me attonito, una pagnottella ripiena di verdure, umida di oli e di manate oneste. «Pigliate, mangiate, cca se fa accussì. E l’anne ca vvene turnate; a nnuje ce fa piacere pecché o’ facimme po sante!»

Che emozione mi pervade di colpo. Colgo il cuore autentico di gente che vive in un passato che sopravvive solo qui. Lo colgo nella naturalezza dei movimenti, nei gesti semplici delle mani dure che porgono pani e con un inchino della fronte. Sono doni preziosi offerti con quella sollecitudine propria degli umili che accolgono tutti e pur avendo poco offrono come se avessero tutto. Rifiutare anche con il garbo erudito di Monsignor della Casa sarebbe un’offesa irrimediabile. Accetto con un sorriso convinto e simpatia.

***

Ma intanto perché il fuoco? Elemento primordiale di vita e di morte nella storia dell’evoluzione e prima conquista dell’uomo da quando Prometeo ne rubò una scintilla essenziale agli dèi, il fuoco è ragione di vita e motore di civiltà. Col fuoco l’uomo ha domato la natura e tanto essenziale è stata la sua funzione che divenne fin dal passato più remoto nucleo di una sacralità universale e tema irriducibile di fede rituale. Nel fuoco si ravvisò il culto della natura, mitizzato nella cultura greca antica nella figura di Artemide (la Diana dei Romani).

Quattro erano per Anassimène gli elementi sacri, le radici stesse del creato (Empedocle le chiamò rizòmata): il fuoco, l’acqua, l’aria e la terra.  E il più puro di essi era proprio il fuoco. Fa tanto parte delle nostre acquisizioni istintive e della nostra cultura religiosa da sfuggire quasi alla nostra osservazione. Nel Cristianesimo è simbolo dello spirito che scende sull’uomo, lo spirito di Dio stesso del quale è il respiro. Rouah lo chiamavano gli Ebrei. Questo spirito si è riflesso nel Cristianesimo che lo ha sintetizzato nella misteriosa figura dello Spirito Santo, una formula ostica di cui nessun buon cristiano capisce bene il significato. In realtà è solo la traccia del ricordo del fuoco ancestrale, prima conquista dell’ingegno umano (o suo primo furto, se vogliamo attenerci al mito prometeico), sintesi di calore, di vita, di sole e quindi per estensione di tutti i simboli della luce nella loro vastissima gamma di accezioni.

Il fuoco è vivo e presente in ogni attimo della vita liturgica cristiana, nei simboli dalle candele davanti ai santi e a quella perenne sull’altare maggiore. Non c’è religione e sacri contesti istituzionali che del fuoco non conservino tracce. Non importa la latitudine. Così la fiammella presente sulla lastra di marmo nero del memoriale di Gandhi a Delhi e quella sulla tomba di J. F. Kennedy ad Arlington: culture e civiltà opposte che si ritrovano nello stesso simbolo. Il fuoco è la metafora del focolare domestico, delle virtù antiche e dei costumi degli antenati, l’onoratissimo mos maiorum dei Romani, espressione della stirpe e della nazione. Era Ignis, così sacro da restare perennemente acceso e custodito da vergini sacre, le Vestali. Nell’Induismo è il simbolo della purezza. Agni (lo stesso dell’Ignis romano), il dio del fuoco, è, infatti, una delle più antiche divinità vediche. Nelle sue vampe tuffano le mani i fedeli indù, come se le affondassero nell’acqua, e le passano sul volto come per lavarlo durante la cerimonia di purificazione dell’Aarti lungo il Gange. Simbolo di purezza sono pure le fiammelle vaganti (diya) che si lasciano andare sulle acque dei fiumi sacri, offerte come preghiere agli dèi. Nel Buddhismo, ushnisa, il simbolo della fiamma sul capo di Buddha indica lo splendore e l’energia spirituale dell’Illuminato. Nello Zoroastrismo, l’antica religione persiana, atar, il fuoco sacro è il luogo del culto di Ahura Mazda e qui pure, esso è l’elemento di purificazione rituale per eccellenza. E non vado oltre.

Nella Festa del fuoco di Cascano si intrecciano e si confondono tradizioni remote. Risalgono inoppugnabilmente a culti primitivi di adorazione che attraverso il filtro delle religioni pagane furono mutuati dal Cristianesimo dove si connotarono nella figura simbolica di san Giuseppe. Questo santo nelle tradizioni posteriori riassunse in sé i valori propri della famiglia, della casa e quindi del focolare come punto di incontro dei valori e delle virtù più importanti. Raccogliersi intorno al fuoco domestico rimanda naturalmente a un clima di serenità gioiosa che si celebra talvolta con libagioni abbondanti e carnevalesche abbuffate a base di piatti semplici della cucina campestre, fatti di pane (le pagnottelle farcite con friarielli e salsicce), legumi, insaccati e vino, naturalmente.

Non escludo infine cha la celebrazione del diciannove marzo di Cascano, per l’esuberanza che implica, rievochi pure le bicchierate e le gozzoviglie bertoldesche, memorie di rievocazioni di lontane liberazioni e di scampati pericoli. Penso in particolare alle incursioni barbaresche lungo le coste campane e laziali che comportavano saccheggi, violenze, stupri, distruzioni di borghi e città. Anche per questo motivo esse erano costruite sulle alture e dove l’architettura urbana, proprio come a Cascano, è un intrico di labirinti abitativi, come per i suk arabi, proprio con il non celato obiettivo di una difesa dalle aggressioni. La Festa del fuoco, al di là dei suoi corollari alimentari, richiama pure la funzione forse simbolica, forse reale, di tener lontani gli aggressori saraceni considerati bestie demoniache da cui ci si difendeva realmente e scaramanticamente proprio col fuoco.

Mi restano negli occhi e nella mente il ricordo e le immagini vive delle genti di questa cittadina. Per esse auspico immensa memoria per ricordare alle future generazioni la forza di un costume che hanno conservato gelosamente nel cuore e nella genuinità del modo di esprimerlo. Spero che esso non sia mai contaminato da mode effimere, sperperatrici dei valori autentici delle tradizioni, che sono invece sempre degne del nostro rispetto e del nostro ricordo.

Mattia Branco

Ho diretto, ho collaborato con periodici locali e riviste professionali. Ho condotto per nove anni uno spazio televisivo nel programma "Anja Show".

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