POMPEI – LA VILLA DEI MISTERI INTERPRETAZIONE DEI SIMBOLI DELL’AFFRESCO

 

Pompei

 

di Vittorio Russo

Pompei è un pezzo di storia che vive. Sgraniamo lo sguardo stupiti difronte a una dimensione d’inimmaginata civiltà, ritrovata come per un miracolo di serendipità. Pompei è soprattutto un dono prezioso del Vesuvio. Non sembri questa una blasfemia perché solo al tragico evento della sua eruzione dobbiamo la resurrezione della città. Alle oltre quindicimila vittime di quella tragedia ci vincola un obbligo di riconoscenza. Dovremmo imparare a percepire la loro morte alla stregua di un’immolazione sacrificale a un dio senza volto, quasi un difensore del passato dall’usura del tempo. Una coltre di cenere dello spessore di oltre sette metri ha preservato questo luogo ancora non del tutto svelato. Pompei è un unicum nel quale la vita si è fermata di colpo dando a noi la possibilità di osservarne lo svolgersi in un momento della sua quotidianità e percepirne il livello dell’insuperabile cultura.

Testimone della raffinatezza artistica della città vesuviana è la Villa dei Misteri. È questa una dimora che accoglie un ciclo pittorico dal significato eternamente oscuro malgrado gli innumerevoli tentativi di interpretazioni da parte di studiosi ed esegeti. La Villa, portata alla luce agli inizi del secolo scorso, è un complesso che risale all’età augustea collocato su una lieve altura da cui si godeva un tempo l’incantevole vista sul Golfo delle Sirene. Oggi non è più visibile per le modifiche morfologiche del territorio. La sapiente scelta del sito dice tutta la raffinatezza dei suoi proprietari o di colei che viene identificata come la Domina. Lei, la protagonista immaginata del segreto più ricco di emozioni della Villa, è la probabile interprete dei celebri affreschi che la Villa conserva, quelli delle tre pareti del suo triclinio. In realtà, nulla è ancora definitivamente noto di questa dimora, neanche il nome di chi l’abitava (si conosce però quello di uno dei guardiani, tale Lucius Istacidius Zosimus). Molti segreti ancora nasconde il complesso, tutti da svelare, sicuramente in continuità con il tema degli affreschi. Va detto pure che all’epoca dell’eruzione la Villa aveva già subito molteplici cambiamenti ed era, oltre che raffinato locum otii, anche una tenuta rustica dove molti schiavi svolgevano lavori agricoli.

La Villa dei Misteri è sicuramente il sito archeologico più visitato di Pompei e al mondo. Ma cosa attira qui il visitatore? Per i più è la sua denominazione, il fascino che essa sottintende e il desiderio di disvelamento che implica. Ma anche l’aura dell’incomprensibile da esplorare per entrare nella dimensione dell’enigma che è la curiosità stregante più intima nascosto nel subconscio.

Geniale fu, perciò, la scelta di chiamarla Villa dei Misteri. Chi decise di darle questo nome fu Amedeo Maiuri, uno studioso di profonda cultura classica e archeologo geniale. A lui si deve la fama mondiale di questo unicum archeologico. Egli capì per primo che per i fedeli del culto di Dioniso (dio dell’ebbrezza, Bacco per i Romani) proprietari della Villa, il dramma dell’esistenza non è nella sua temporalità ma nel trovare una ragione al mistero dell’aldilà. Con questa convinzione egli dovette cogliere il contenuto misterico (nell’accezione che sto per dire), legato ai riti del dio. Per primo, affascinato, Maiuri percepì il senso più recondito del mistero della vita e dell’oltre vita. Proprio secondo la sensibilità di quell’epoca lontana resa nella sintesi del fulgore ermetico dei dipinti.

Il termine mistero in antichità identificava insegnamenti e dottrine di carattere segreto. Esse venivano rivelate esclusivamente a iniziati i quali erano severamente vincolati a non svelarne il senso nascosto. L’adesione ai culti dionisiaci, in special modo, mirava al raggiungimento della liberazione dal tedio della precarietà dell’esistenza e del ritorno alla vita dopo la morte. Proprio come insegnava il mito di Dioniso risorto dall’oltretomba. Il desiderio di resurrezione dopo la morte, che è il tema dei culti misterici da cui molto ha mutuato il pensiero cristiano, comprova che per i nostri più antichi antenati greco-romani la vita non era solo mera sopravvivenza ma soprattutto bisogno di immortalità. Pulsione comune, questa, di ogni vivente e proposizione suprema di ogni fede religiosa. Va da sé poi che Dioniso, così come le divinità degli altri culti misterici dell’antichità, si fa allegoria della ciclicità della natura che nella sua drammatizzazione esoterica diventa figura salvifica degli adepti al suo culto.

Il percorso per giungere al risveglio dopo la morte comportava vari gradi di iniziazione attraverso esperienze di ebrezza ed estasi. La liberazione da ogni freno inibitore e la soppressione di tutti i limiti conduceva all’enthusiasmein (da cui entusiasmo). L’ enthusiasmein equivaleva all’essere  posseduti da parte del dio che, essendo ritornato alla vita, diventava pure figura salvifica e promessa di resurrezione dei suoi devoti.

All’ebbrezza mistica si perveniva attraverso danze compulsive sotto gli effetti del vino, con canti corali (ditirambi) e riti orgiastici. Orghia ed ergon, cioè l’azione sacra, diventano in italiano orgia, termine a connotazione negativa dovuta all’interpretazione cristiana per via delle immagini di nudità frequenti nelle rappresentazioni.

Le tre pareti del triclinio accolgono per la massima parte della loro superficie un ciclo pittorico di dieci sequenze con figure a grandezza naturale su sfondo rosso. Con sapienza magistrale e grande scelta cromatica, l’autore ha fissato su di esse un complesso racconto allegorico che ha per tema l’enigma di eros e morte. Il racconto è rivolto, naturalmente, a iniziati che ben conoscono il messaggio dei simboli rappresentati dalle immagini, simboli che non si svelano perciò a un pubblico profano. È evidente che la narrazione è volutamente e necessariamente criptica. Lo scopo dell’artista era solo quello di indicare attraverso forme e segni la ragione di un’adesione al culto del dio del vino in vista di una liberazione dalla morte nell’aldilà. Non ha, perciò, molto senso tentare di dare una spiegazione razionale alle figure in mancanza della chiave di lettura del significato ultimo di mistero, ignoto peraltro anche ai gradi più elevati fra gli iniziati (mystes). Tuttavia, a una lettura attenta colpiscono i traslati puntuali e ripetuti che distinguono la ritualità del culto di Dioniso, oltre alle forme subliminali che sono decifrabili solo a un’osservazione minuziosa. Così, per esempio, colpisce il frequente colore viola degli affreschi che richiama il mito di Dioniso e Ametista. Secondo il mito questa ninfa, inseguita dal dio ubriaco, avrebbe invocato Artemide perché la proteggesse e la dea l’avrebbe trasformata in statua di cristallo. Ripresosi dalla sbornia e pentito, Dioniso avrebbe pianto lacrime amare, di vino naturalmente, che avrebbero colorato di viola la statua di Ametista (che in greco significa senza ubriachezza). Da qui il colore caro al dio. Numerose sono pure le figure falliche talvolta appena adombrate e mascherate sotto forma di nastri, di rotoli di papiro e di orecchie aguzze. Oltre che, ben evidenti, nella scena della giovane scalza, sotto lo sguardo della figura alata, colta nell’atto di scoprire un fallo (di Dioniso?), simbolo della forza generatrice della natura.

L’aspetto più singolare di questo capolavoro è l’atmosfera di malinconia tragica che grava su tutti i volti dei personaggi. Sembrano voler prefigurare la sorte della città che sta per essere ingoiata da un oceano di fuoco, ma anche preannunciarne una futura resurrezione raffigurata nella figura conclusiva del ciclo pittorico. L’ultima scena, infatti, descrive il momento in cui la tristezza si scioglie nella posa dinamica di una giovane donna nuda che danza con piedi lievi e cembali sonanti fra le dita. Proprio la sua nudità potrebbe esprimere la verità della conoscenza suprema culminante nella liberazione dell’iniziata che, raggiunta l’ebrezza, è pronta, senza remore, a ogni abbandono.

Chissà quali altri misteri nasconde ancora l’affresco, quale sia stata la motivazione che ne ha giustificato la realizzazione in questa villa suburbana e quali segreti copra sui suoi proprietari e sulla sua Domina! Segreti che lasceranno avanzare altre ipotesi ancora, non meno ardite forse e intriganti di quelle passate. Tutte, comunque, saranno contrarie allo scopo che l’autore si prefiggeva. Sul mysterion graverà sempre il buio, freddo e insondabile, anche se mille occhi spieranno in esso per svelarne gli arcani. Perché tutto è commensurabile, anche la follia, nulla tuttavia potrà mai colmare l’abisso in cui sprofonda l’immaginazione generata dal delirio dell’ebbrezza.

VR

Mattia Branco

Ho diretto, ho collaborato con periodici locali e riviste professionali. Ho condotto per nove anni uno spazio televisivo nel programma "Anja Show".

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