Quando si dice ELUCUBRARE!

di Vittorio RUSSO

Elucubrare, spiega il vocabolario Treccani, è “il lavorare con molta cura e assiduità a un’opera intellettuale”. Fin qui posso dirmi d’accordo. Però, per essere io un notevole “elucubratore”, dovrei produrre opere degne di lode. Così non è quasi mai.

Vuol dire forse che il verbo elucubrare traduce male il concetto?
No, le parole, come spesso ho scritto, sono espressione di tempo e di storia. Si usurano, si maltrattano, si sfregiano ma non smettono di portare dentro una vitalità che le proietta oltre la storia stessa. Anzi, sono proprio le parole che quando le enuclei dalle scorie e ne sveli l’etimo fanno chiari molti eventi della storia.

E allora? Come si spiega che il mio elucubrare è così spesso privo di effetto, produce distorsioni alogiche alla Escher o immagini diaboliche espresse da sguardi misteriosi di gatti?

Sono disceso alla radice del verbo. Mi ha aiutato pure, e gli sono grato, la riflessione di Jérome Carcopino (La vita quotidiana a Roma). Ho scoperto così che “elucubrare” è la concentrazione della mente che ha luogo nelle ore antecedenti l’alba. Questo avveniva alla fioca luce di un lumino che i Romani chiamavano “lucubrum” (da lux che vuol dire luce). In altri termini, elucubrare è il meditare nel lucore incerto del cero che accompagna la notte nell’ora del suo svanire.

Ecco svelato dove sbagliavo. C’è un momento preciso per elucubrare. È quello del tempo aurorale e solo quello. Non puoi dire “sto elucubrando” e magari sono le otto di sera. A quell’ora non si può elucubrare. Ti vengono fuori inflessioni storte, pensieri spettinati, insonnia e ti sogni la Madonna…

Chi fin qui ha elucubrato fuori orario, si ravveda. Corregga l’ora. Si elucubra solo prima che faccia giorno, magari alla luce di una lampadina cinese autoalimentata per essere al passo coi tempi…

Io farò così e vi informerò sui risultati.