QUELLO CHE AVVENNE AL TRASIMENO NELLA SECONDA GUERRA PUNICA…DI VITTORIO RUSSO

PRIMA PARTE

 

In una mattina bianca di nebbie di un giugno di non molto tempo fa, sono ritornato sulle sponde del Trasimeno. Una bruma vaporosa e spessa, simile a zucchero filato, m’incarta nella sua candida cappa. Ho negli occhi il colore latteo del nulla e negli orecchi un brusio intenso, quasi l’eco riflessa dalla caligine che diventa il senso stesso del silenzio di questi luoghi. Solo a settentrione, non lontano, s’ode il rintocco delle campane di una chiesa di Passignano che chiama i fedeli alle devozioni del mattino. Mi sono smarrito per il piacere di lasciarmi cullare dai ricordi in questo labirinto bianco, intontito quasi dal suono ovattato della calma propria delle nebbie.

Cammino lentamente. Crocchia sotto i piedi il fango disseccato della riva. Intorno nulla. Inciampo. Mi siedo su un muricciolo franato il cui muschio è vestito di rugiada. Godo della solitudine nel rievocare quello che la memoria conserva delle narrazioni di Polibio e di Tito Livio relativo alla battaglia del Trasimeno fra Annibale il Cartaginese e Roma.

Ancora silenzio. Poi si confondono il brusio di piccoli insetti d’acqua, i cladoceri, e quello delle canne sottili delle tife dalle spighe come grossi sigari sulla sponda fangosa, prossima di pochi passi soltanto. Segue un fruscio delicato, tenerissimo, quasi un gemito, sapete, come quello che l’aria dolce dell’alba trae dalle foglie erette dei calami, dagli scirpi e dai pennacchi delle canne palustri e ne suscita suoni che diventano soffi di vita, lamenti. Un lamento, mille lamenti, un canto di morte infinito: è solo l’eterno racconto di quell’eccidio remoto che qui ebbe luogo e che il respiro leggero dell’aurora perpetua a ricordo indelebile nei millenni.

Immagino quell’alba livida come il piombo, il passo dei legionari appesantito dall’equipaggiamento dei bagagli e delle armi, il rompersi lieve delle brevi onde del lago lungo le rive spumose e molli, a pochi metri. A monte, lì sulle alture invisibili immerse nel biancore della nebbia, domina assoluto il silenzio dei mercenari punici pronti a schizzar fuori dai nascondigli al segnale convenuto delle trombe. Cupo nei suoi pensieri, a cavallo, Gaio Flaminio Nepote, il console di quell’anno, è in marcia con le sue quattro legioni. Lo distingue il paludamentum rosso, il mantello allacciato sullo spallaccio della lorica musculata con i bei disegni dei pettorali e del retto dell’addome. Dietro e davanti a lui avanzano i tribuni nei loro saga spessi, essi pure a cavallo e i centurioni dall’elmo lucente tagliato dalla cresta trasversale. In marcia. La quiete si fa rumore assordante se solo uno sterpo si spezza sotto l’unghia di un cavallo o se una rana salta in acqua. Una quiete solenne e feroce: è il preavviso angoscioso dell’urlo disumano che un attimo dopo frantuma l’aria in una confusione di clamori, nello scheggiarsi degli acciai dei gladi, nel cozzare degli scudi, nel gemito dei feriti. E di questi feriti, ancora vivi, la melma inghiotte con gola vorace i corpi appesantiti dalle armi e l’ultimo respiro. Nel labile luccichio delle spade falcate dei punici, sporche di fango e di sangue, nel sibilo delle aste che trapassano gole indifese, lo sbigottimento disegna il terrore negli occhi sgranati sulla morte dei legionari inermi, sacrificati al più feroce Moloch punico.

Ho atteso che la nebbia si diradasse prima di ritornare nel tempo della mia quotidianità. Cammino con passo duro sul fango secco che crepita come sotto lo zoccolo di Pan stesso. E come il dio dei boschi che svanisce nel sole con una canna sonante fra le dita, quello che gli resta di Siringa la ninfa amata, mi allontano io pure. Porto via una cannuccia palustre, una cannuccia del lago, con la sua cuspide piumata che sibila nella brezza del giorno che nasce a rievocare l’ultimo gemito di uno dei quindicimila legionari di Roma, morto su queste sponde ventidue secoli fa.

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Del triennio più cruento della seconda guerra punica, l’anno 217 a.C. fu per l’Urbe l’annus horribilis di mezzo, dopo le battaglie del Ticino e del Trebbia (218 a.C.) e prima di quella di Canne (216 a.C.). Di quell’anno da dimenticare, il ventiquattro giugno segnò la data più atroce per Roma: fu il giorno del massacro del Trasimeno. Massacro, sì, perché di fatto quella non fu una battaglia, come pure è generalmente nota, ma solo un orrendo sfracello reso ancora più drammatico e angosciante in quanto avveniva quasi alle porte di Roma.

Quel giorno i Romani sentirono sul collo il fiato ardente di una valanga di guerrieri selvaggi. Quarantamila o cinquantamila mercenari Cartaginesi, Libici, Celti, Balearici, Numidi, Ispanici forse più, avanzavano minacciosi: avevano negli occhi il fuoco con cui avrebbero voluto bruciare i templi antichi della Roma dei re. I Romani vissero l’incubo delle mura dell’Urbe spianate e della sua gente trucidata senza pietà. Videro profanate le vergini sacerdotesse di Vesta, violentate le donne e immolati i bambini a divinità sanguinarie. Sentirono di nuovo il lezzo dei Galli di Brenno appestare le strade della città al procedere di quell’orda devastatrice e senza regole di lealtà guerresca. Quarantamila! Pronti a innalzare dei vinti montagne di ossa e di crani. Era un esercito che parlava le lingue di tutte le terre intorno a quel mare non ancora nostrum, lingue assurde con le quali non avevano bisogno di capirsi anche perché non ci sarebbero riusciti. Si esprimevano invece con il terrore, che era la loro arma vincente, e la violenza di chi non ha nulla da perdere se non la vita che nelle terre di origine valeva poco e in guerra ancora meno. Gente spietata insomma, animata dell’odio che un mente glaciale e ordinatrice quale era quella di Annibale, sapeva instillare nei cuori come un veleno dai danni irreversibili. Mai Roma aveva avuto a che fare con armate tanto singolari e mai s’era dovuta confrontare prima con generali così imprevedibili come il Cartaginese. Fu senza dubbio proprio quella circostanza che temprò i Romani e diede loro coscienza della propria identità di popolo dai grandi destini. Fu proprio dall’incubo da Annibale che nacque la Roma eterna.

Di tutte le batoste romane della seconda guerra punica, che furono molte e tutte catastrofiche, quella del Trasimeno fu forse la spina che maggiormente punse il cuore orgoglioso dei Romani per i successivi settant’anni. Fino cioè al giorno della vendetta suprema che fu quello della distruzione di Cartagine (146 a.C.). Il disastro del Trasimeno fu infatti anche più tragico della sconfitta di Canne dell’anno successivo, perché mentre questa fu una vera e propria battaglia, combattuta male dai Romani ma combattuta, quella del Trasimeno fu solo un inimmaginabile ammazzatoio. Si trattò in realtà di un’imboscata che fece capire a Roma e ai suoi consoli del momento, spesso presuntuosi più che valorosi e avveduti, di quanto fossero cambiati gli schemi bellici con le rivoluzioni tattiche messe in atto da quel levantino impassibile e cinico che era Annibale.

Ciò che avvenne il 24 giugno del 217 a.C. non è proprio chiarissimo perché i resoconti storici più importanti, quelli di Polibio e di Livio, non sono conciliabili. Comunque, tutto avvenne come se gli eventi di quell’alba di nebbie fossero stati disegnati dal dito capriccioso di un Fato in vena di follie, per rendere ridicolo il più ammirato generale di Roma: Gaio Flaminio Nepote.

Flaminio era l’homo novus del momento, un uomo del popolo, sanguigno e pragmatico. Solo pochi anni prima, facendo valere la sua fermezza granitica, s’era imposto con tutta l’autorevolezza del suo carattere spigoloso e tenace. Malgrado i suoi discutibili atteggiamenti, infatti, era riuscito a piegare definitivamente le varie tribù galliche del nord, alleate contro Roma, e aveva costituito la provincia della Gallia Cisalpina corrispondente al territorio dell’attuale Italia settentrionale, dall’Emilia all’arco alpino. Flaminio era sicuramente un uomo capace, oltre che tenace, rotto alle malizie della guerra, educato all’accortezza ma pronto alle decisioni fulminee come conviene a un comandante che per tradizione militare predilige la sagacia non meno che la rapidità. Tutto congiurò quel giorno maledetto contro di lui, peggio che se avesse deciso egli stesso di organizzare la strage delle proprie legioni e la propria morte. Né più felice fu la sorte di Gneo Servilio Gemino, suo collega di consolato, a capo del secondo esercito consolare che, sfuggito alla morte in quella circostanza, finì i suoi giorni a Canne, l’anno dopo. Scendeva precipitosamente da Ariminum (la Rimini di oggi) lungo quella via Flaminia, costruita da Flaminio stesso appena tre anni prima, per riunire le proprie legioni a quelle del collega con l’intento di affrontare Annibale, stringerlo in una manovra a tenaglia e batterlo.

Flaminio aveva spostato le proprie legioni da Arezzo verso il Trasimeno nella speranza di sbarrare il passo all’esercito punico. Aveva raggiunto in fretta la sponda settentrionale del lago certo di anticipare il Cartaginese le cui forze, in realtà, passando forse da Bologna a Fiesole, lo avevano preceduto per raggiungere la stretta vallata tra le colline di Cortona e il lago e per tornare indietro aggirando i Romani. La marcia dell’esercito punico lungo il Valdarno era stata comunque devastante. Difatti, il passaggio attraverso l’acquitrino provocato dall’esondazione dell’Arno tra Pistoia e Fiesole, aveva comportato perdite immense. Con migliaia di uomini Annibale ci aveva rimesso pure un occhio e l’ultimo elefante, Siro, sopravvissuto senza essere stato di alcuna utilità negli scontri armati, così come gli altri trentasei, morti subito dopo il passaggio delle Alpi. La scelta di quel percorso da parte del Cartaginese non era francamente prevedibile e Flaminio non la previde. Prevedibile fu invece la sua e Annibale, anche se orbo, la previde puntualmente e non perse l’occasione per colpire duramente.

Mattia Branco

Ho diretto, ho collaborato con periodici locali e riviste professionali. Ho condotto per nove anni uno spazio televisivo nel programma "Anja Show".

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